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Il Biscione di Genova

Enrico Ratto

Viaggio nel quartiere Forte Quezzi Ina-Casa di Genova, serpentone di cemento che segue per centinaia di metri l’andamento della montagna, a cinquant'anni dalla morte di Luigi Carlo Daneri, architetto modernista e progettista del complesso

Esistono davvero: edifici in cemento armato anni Sessanta con novecento unità abitative dove si può vivere bene, o per lo meno non si finisce negli elenchi delle periferie urbane da rigenerare con campetti da calcio, mostre fotografiche open air e aree sicure con murales autorizzati. E’ il caso del quartiere Forte Quezzi Ina-Casa di Genova, detto “il Biscione” per la sua forma curva che segue per centinaia di metri l’andamento della montagna. 

 
In questi mesi a Genova si sta discutendo molto del Biscione perché ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Luigi Carlo Daneri, architetto modernista e progettista del complesso costruito alla fine degli anni 50 con molta fretta, d’altra parte c’erano da sistemare duecentomila persone arrivate a Genova per lavorare negli impianti industriali della città.

   

“E’ stata scelta l’architettura intensiva e concentrata, come dargli torto?” si domanda Francesco Bacci, studioso dei progetti di Daneri e autore del libro “Mito e architettura” (Pendragon, 2021), dove un capitolo è dedicato proprio alla mitologia che negli anni si è sviluppata intorno a questo quartiere “che fino a una decina di anni fa era visto come un classico ecomostro italiano, ma che oggi è rivalutato da tutti, sia dai suoi abitanti, sia da chi lo osserva dalla città a valle. L’ecomostro è qualcosa che invade lo spazio, questo complesso di edifici lo corona.”
 

Al di là dell’impatto estetico piuttosto forte, sarebbe quindi un errore annoverare questo progetto tra le grandi speculazioni del boom industriale. “Il desiderio di Daneri era costruire un quartiere che stimolasse l’ottimismo, un’utopia piuttosto ingenua diffusa all’epoca, costruire per cambiare il modo di vivere”, spiega Bacci. “Per esempio, era stato previsto che tutti gli appartamenti fossero rivolti a sud con una vista aperta sul mare, che a nord venisse conservata un’area verde, che ci fossero negozi, l’asilo, la scuola e che il quartiere fosse collegato alla città attraverso un sistema di cremagliere. Se qualcosa è andato storto, la colpa non è dei progettisti.”
 

C’è voluto tempo, ma negli anni una parte di questi servizi è arrivata, forse proprio grazie al cemento senza firma né visione versato più a valle. Il Biscione, infatti, oggi appare come una razionalissima striscia che attraversa la montagna con la città di Genova ai suoi piedi (compreso il Ferraris, lo “stadio urbano” di Gregotti), una montagna su cui sono spuntate decine di palazzine che, sommate, sono molto più impattanti. “Vedete cosa succede quando, anziché al rigore del moderno, si guarda al vernacolare?” osservano i ricercatori durante i convegni che la città sta dedicando a Luigi Daneri. Certo, poi con le palazzine sono arrivati gli autobus, i negozi di prossimità e tutto il pacchetto di servizi agli abitanti. Il Biscione è entrato a far parte di quelle opere di architettura alle quali si dedicano parole, libri, si organizzano convegni e si aprono gruppi Facebook d’appartenenza, per esempio il “Brigata Biscione. Brutto lui? Sarete belli voi” dove c’è chi lo celebra, chi lo condanna, chi lo eleva, e molti lo citano come esempio riuscito di architettura razionale necessaria per affrontare l’emergenza, la perenne emergenza. Le Corbusier all’italiana.
 

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