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Esplorazioni da flâneur a New York
Durante la pandemia Kimmelman, critico d’architettura del Nyt, si è messo a perlustrare a piedi ogni angolo della città con alcuni amici, colleghi, architetti, storici e intenditori. Un libro a più voci che è una stratigrafia ragionata della città
New York soffre, perché non riesce a ritrovare il tasso di turismo pre Covid. Ma intanto cresce a dismisura e il suo profilo muta da un giorno all’altro con i finger sky scraper coi loro fusti svettanti da una minutissima base fra le strade di Manhattan. La nuova moda perciò è di tornare al tempo che fu. La stasi della pandemia e il silenzio coatto della città durante il Covid hanno spinto un osservatore acuto come Michael Kimmelman, responsabile per l’architettura del New York Times, a riesplorare il tema in un libro a più voci (The Intimate City, Walking New York, Penguin Press) che è una stratigrafia ragionata della città secondo l’arte del flâneurie, già collaudata per Parigi da Baudelaire e Walter Benjamin, e per Dublino da Vladimir Nabokov, il quale, esperto di Joyce, ne studiava le mappe per ricostruire passo passo gli spostamenti di Stephan Dedalus e di Leopold Bloom per gli studenti di Cornell.
Durante la pandemia, dunque, Kimmelman si è messo a perlustrare a piedi ogni angolo della città con alcuni amici, colleghi, architetti, storici e intenditori come Eric Sanderson per Lower Manhattan e il Bronx, Suketu Mehta per Jackson Heigts, l’urbanista Kate Orff per Forest Hills, per l’East River l’architetto Deborah Berke, titolare di omonimo studio e preside di Architettura a Yale, lo storico dell’architettura Andrew Dolkart per il Greenwich Village, l’attivista ecologista Monxo Lopez per il South Bronx, il presidente del Museum of Chinese in American Nancy Yao Massbach e vari altri…
Divagando insieme a loro ha raccontato in una serie di articoli per i milioni di lettori del New York Times la storia di New York, le trasformazioni urbanistiche, la sua architettura, l’evoluzione della topografia, la metamorfosi dei quartieri, delle fabbriche, dell’ingegneria sociale. Il risultato è un libro in forma di interviste, che corredato di fotografie e scorci insoliti si legge come il diario collettivo di una città sconosciuta e come una guida inaspettata di New York attraverso i segreti del suo passato remoto, quando Times Square era ancora uno stagno, lo Yankee Stadium una pozza salata, e i newyorkesi andavano sul Water Front in cerca di quiete.
Vagando con i suoi amici da un quartiere all’altro, Kimmelman esplora le chiese storiche di Harlem, i grattacieli di Park Avenue, l’architettura storica del Greenwich Village. E seguendo il fluire della conversazione, restituisce la vita pulsante di una città costretta nel perimetro naturale di un’isola fra due fiumi che la rende un porto aperto ai commerci, agli scambi, alle contaminazioni, attraverso ritratto di una metropoli prometeica, impegnata sin dalla notte dei tempi nella sfida costante di superare quel perimetro e aggirarlo, con la tecnologia, le leggi, le diavolerie della finanza, il genio visionario di urbanisti e architetti, e soprattutto le ondate di immigrati, che l’hanno resa il più grande concentrato di umanità e di capitali esistente sulla faccia della terra, il bersaglio perfetto e la perfetta dimostrazione della non violenza, della fratellanza razziale e dell’utopia realizzata dell’universalismo contemporaneo.