Terrazzo
Milano è diventata un brand di lusso che i milanesi non possono più permettersi?
Eventi, gentrification, comunicazione: tutto ciò che non funziona (o funziona troppo bene) a Milano in un pamphlet
Oggi - siamo ripetitivi - se non critichi Milano non sei nessuno. Ah, quando la si criticava noi, signora mia. Adesso è tutto un brulicare di proteste, non c’è giorno che Jonathan Bazzi non tuitti sui prezzi delle case in esorbitante ascesa, c’è il dramma dello smog (quinta città più inquinata del mondo nello scorso weekend, secondo le app) e la tragedia delle baby borseggiatrici nelle metropolitane (con account Instagram, perché siamo a Milano: @milanobelladadio). Insomma la protesta serpeggia, il malumore cresce, il disincanto esplode. Ma adesso arriva un saggio che rischia di diventare il Libretto rosso dei Nuovi Milanesi Indignati.
Lucia Tozzi è una studiosa di politiche urbane e giornalista. Adesso con “L’invenzione di Milano”, sottotitolo "culto della comunicazione e politiche urbane" (appena uscito per l’editore Cronopio) si getta a capofitto contro ciò che non va a Milano, cioè, per lei, praticamente tutto: ce l’ha con la Triennale, con le politiche urbane, coi musei, con Miuccia Prada, con Manfredi Catella, il grande Gatsby di Porta Nuova. Sotto accusa è la città che a forza di uffici stampa e comunicazione e réclame e account manager ha trasformato sé stessa in un brand super cool che però non si può più permettere. I luoghi della cultura e della partecipazione sono diventati marchi. “La retorica dell’ibridazione degli spazi è uno degli oggetti preferiti delle campagne YesMilano, il brand promosso dall’agenzia ufficiale di marketing della città, Milano & Partners, da anni impegnata a costruire la messinscena di una società aperta e postclassista”, scrive Tozzi. “I suoi canali celebrano costantemente luoghi come la Cascina Cuccagna o Rob de Matt (ristoranti con ampi spazi all’aperto e stanze per mostre, incontri e microattività sociali), CasciNet (bar, orti urbani), il Cinemino (sala cinema amatoriale con lucroso bar), Gogol & Company (libreria-bar molto social), il mercato Comunale del Giambellino (con ristoranti ed eventi), la Balera dell’Ortica (nota per gli arrosticini) e persino centri sociali-culturali veri e propri come Macao o presunti come il Tempio del Futuro Perduto (più noto per le feste e i cocktail gourmet che per la linea politica e culturale)”.
In questi posti, suggerisce Tozzi, alligna una nuova tribù urbana, una mono-classe anestetizzata che ha trasformato l’impegno in consumo, specialmente alimentare. “Vagando di quartiere in quartiere e di bistrot in panetteria sociale, da Corvetto a Dergano, si cominciano a riconoscere proprio gli stessi volti, le stesse persone appartenenti non solo allo stesso ceto, ma a un gruppo piuttosto ristretto di ricercatori-attivisti-membri di associazioni-lavoratori dell’arte e dello spettacolo che si sottopongono a innumerevoli sessioni di mutuo ascolto bagnato da birra artigianale e vino naturale”. Gli stessi che affollano i “bar con libreria e corsi di grafica/mixology per il quartiere”. La Milano dove (siamo sempre a Boris) l’unica cosa seria rimasta è la ristorazione. Sotto accusa la “foodification” (in effetti si sta constatando un effetto molto Silicon Valley; dove molti immigrati italiani di talento arrivavano con le idee più futuristiche e poi finivano per aprir pizzerie e mozzarella-bar. A Milano pare un po’ lo stesso. Con delle peculiarità local: ci sono i ristoranti con le mezze porzioni, ma a prezzo pieno, idea che passa come “plus”, e quelli dove non ti arriva niente per un’ora e milanesemente non si scusano ma ti viene risposto: ah, ma lei non ha mai mangiato un vero risotto espresso!).
Ma sotto accusa è sempre lei, la cattiva maestra gentrificazione: “Gli artisti e gli attivisti ‘pionieri’ nella colonizzazione di periferie poveramente popolate, che innescano i primi movimenti dei processi di espulsione dei vecchi abitanti verso l’esterno della città, si prendono il merito di chi ha fatto il lavoro sporco, dissodando il terreno a proprio rischio. Le famiglie di media cultura che soppiantano la bohème facendo lievitare i prezzi degli alloggi passano per i generosi portatori di sicurezza e pulizia. Le grandi società che accumulano profitti immensi facendo incetta di palazzi e terreni e trasformando violentemente il tessuto abitativo e commerciale sono addirittura riconosciute come autorità legittime, i loro Ceo prendono parola nel discorso pubblico con maggiore autorevolezza dei politici eletti, di sindaci e assessori”.
Il centro del libro sembra essere questa Milano che ha finito per pagare carissima la sua voglia di primeggiare, forse col solito senso di colpa e del dovere lombardo. “Milano è in un certo senso la capitale europea dello spirito sacrificale. Pur di fare girare l’economia, di vedere la propria città più in alto di Roma nelle classifiche, magari “in gara con Parigi o Amsterdam”, “i tifosi (non tutti, per la verità) sono disposti a lasciare abbattere un oggetto di straordinaria affezione come lo stadio San Siro. Gli studenti e i professori delle facoltà scientifiche dell’Università Statale si sono coscientemente resi disponibili a una svantaggiosissima deportazione dal bellissimo quartiere di Città Studi al deserto di Rho-Pero, sulle ceneri dell’Expo, per valorizzare con la propria presenza le aree di un’improbabile smart city (il progetto Mind) e le adiacenti case di Cascina Merlata, entrambi votati al probabile fallimento senza l’oro del consumo giovanile”.
E’ la Milano che si sogna Silicon Valley, che si pasce nelle sue week infinite, prima erano solo fashion e design, ora pure pet week, per gli animaletti… “la saturazione del calendario culturale milanese per mezzo di pretestuosi aggregatori tematici settimanali in una sequenza demenziale e a bassissimo costo per il Comune”. E’ la città dei murales “del sindaco”, che “rappresentano con tratti realistici eroi civili o locali, luminosi esempi di attivisti o saggi promotori della cultura libertaria e dei diritti, spesso dotati del marchio dello sponsor pubblico e/o privato. La stampa esulta ogni volta che se ne inaugura uno nuovo. Le facce si somigliano tutte”.
E’ la città dove essere poveri è una categoria morale, deprecanda secondo l’autrice. “Poveri e reietti, e soprattutto chi critica e protesta, sono invece oggetto della più totale riprovazione sociale, in quanto identificati come responsabili del calo della competitività e della rendita”. A meno che però non si identifichino in una sotto-categoria (qui noi la si è chiamata sempre “fascia alta dei morti di fame”, forse vale anche per Milano): “dipende dalle scelte comportamentali; l’abitante delle case popolari che accetta di partecipare alle attività socioculturali predisposte dai bandi europei insieme alle istituzioni locali (la festa di quartiere, la performance artistica, il laboratorio del pane biologico), il writer che si lascia arruolare nella decorazione di muri concordati, l’attivista del centro sociale che mette in secondo piano la contestazione diretta contro il malgoverno cittadino per sviluppare invece attività culturali underground (e quindi entertainement) sono preziosissimi, sono il sale del marketing urbano, perché collaborano attivamente alla formazione di un’idea di città come puzzle di communities e location”.
Insomma, con questo pamphlet dal gusto molto rétro tutti scenderanno in piazza? I nuovi milanesi indignati molleranno le loro startup creative e le revenues per combattere per una Milano più equa? Tipo “Crisi in sei scene”, la serie tv Amazon Prime di Woody Allen in cui un giovane finanziere si invaghisce di una bella protestataria che invade con opuscoli di Mao, Marx e Che Guevara la casa borghese in cui è ospite, e il gruppo di amiche della padrona di casa diventano immediatamente fan ed esperte di guerriglia. Poi però il fidanzato si ravvede e torna al fatturato. Il rischio è che a Milano la protesta diventi un brand come un altro, magari con la sua week dedicata, e un botto di sponsor.