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Terrazzo

Il dibattito su Milano e l'urbana banalità del brutto

Giulio Silvano

Pubblica amministrazione malandata e cittadini (e turisti) visti come meri consumatori. In questo la questione della bellezza è molto più politica di quello che sembra. Che cosa ci dice che nelle città la bellezza è assenza

Esaltati per un momentino di aver trovato una Londra – o una Parigi – tra le mura spagnole – o austriache – alcuni nella bolla ci restano male quando il momentino finisce, altri tiran fuori il soddisfacente te l’avevo detto “il turbocapitalismo airbnbista non può che creare demoni”. Ma appunto, il dibattito Milano sì / Milano no / Milano forse, è un dialogo che avviene solo dentro due categorie: la bolla – i creativi! – e chi non può permettersi gli affitti, come gli studenti fuorisede. 

  

Ma se togliamo l’elemento economico e quello della qualità dell’aria – che era comunque peggiore nella tanto romanticizzata Milano del bar Jamaica – resta la questione della bellezza. “Milano è brutta”, dicono i detrattori. “La bellezza di Milano è nascosta, va cercata”, dicono gli altri menzionando i cortili dei palazzi del Settecento. “Almeno a Roma mi faccio una passeggiata e vedo il Colosseo”, dicono i primi. “Non se vivi a Casal Palocco”, dicono i secondi.

   

Ma se ripensiamo a quanto trovavamo belle, ed eerie, le città vuote al tempo del Covid, prima che il bonus 110 impacchettasse tutto come un’imitazione cheap di Christo, prima che i dehor self-made tipo capanne di Sukkot per l’ape invadessero i marciapiedi, in un momento che ci ricordava i quadri del rinascimento metafisico, ci rendiamo conto che la bellezza è assenza, che less is more, come sempre. Food for thoughts, dentro il dibattito sulla vivibilità urbana, il libretto di Cristiano Seganfreddo uscito da poco per la Politi Seganfreddo edizioni, La banalità del brutto. “Per restare ideale e perfetta la città deve espellere (o limitare al massimo) la presenza di elementi disturbanti, degli agenti contaminanti che introducono imperfezione e finitezza nella trama astratta della bellezza”, scrive l’autore. Non parla della grande bruttezza, ma di quei tanti piccoli elementi che sono stati disseminati e a volte dimenticati tra le fibre dell’urbe, che siano dissuasori mobili, panettoni anti-traffico scrostati, tombini cementificati male, cassette della posta inutilizzate, cartelli stradali ammaccati, pali nudi di cui si ignora l’utilità, ma anche volantini in Comic Sans, tappeti di erba sintetica, fioriere diventati posacenere, teloni plastificati, pubblicità invasive, tubi dell’aria condizionata, plexiglass, macchinette dei gratta e vinci, menu con le foto delle pizze. Pubblica amministrazione malandata + cittadini (e turisti) visti come meri consumatori. In questo la questione della bellezza è molto più politica di quello che sembra. E non solo a Milano.

   

Nell’ultimo libro di Bernard Quiriny, Ritratto del Barone d’Handrax, uscito per l’Orma, il personaggio principale, un aristocratico sopra le righe, quando passeggia in campagna fa a volte delle strane giravolte, o inizia a camminare all’indietro, o di lato, o chiude gli occhi. “Perché?”, gli chiede il narratore. “Per non vedere le cose brutte”. Per evitare che il suo sguardo cada su certi cartelloni pubblicitari o capannoni o tralicci. “Compongo il mio paesaggio, eliminando tutto ciò che può deturparlo”. 

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