Terrazzo

Le architetture di “Beef”, una tranquilla rabbia beige formato serie tv

Gaia Montanaro

La produzione su Netflix di Lee Sung Jin è un racconto curato in ogni dettaglio: cemento e legno, stile Japandi, un tripudio di sobrietà radicale e claustrofobica. Alvar Aalto docet

Se non è (sempre) vero che un libro si giudica dalla copertina, una serie tv si giudica – anche – dai titoli di testa. E quelli di “Beef”, dieci episodi su Netflix, fanno comprendere fin da subito che ci troviamo davanti a un racconto curato in ogni dettaglio. Assaporiamo quindi i dieci quadri dipinti da David Choe (anche attore coprotagonista nella serie) e le altrettante citazioni che danno il titolo agli episodi e che appartengono a scrittori e drammaturghi. Ma questo è appunto solo l’antipasto visivo di quello che Beef si mostrerà capace di fare.

 

Passo indietro: un’imprenditrice benestante cinese di nome Amy (Ali Wong) sperona con il suo suv bianco un muratore coreano – Danny (Steve Yeun) – all’uscita di un grande magazzino. Ne nasce una lite, un successivo inseguimento tra auto e una escalation di ripicche tra i due che vedono montare una rabbia reciproca incontrollabile e senza fine. Scontro tra due personalità opposte ma anche tra due mondi, come ben ci ricordano le abitazioni che Amy e Danny occupano. Se Danny abita in una sorta di versione californiana di una casa di ringhiera – fatiscente, con muri interni scrostati e moquette con connotative chiazze di sporco – l’abitazione di Amy a Calabasas, che divide con il marito scultore (i pantaloni in famiglia li porta lei) e la figlia piccola, racconta tutta un’altra storia.

 

La villa, in perfetto stile Japandi (crasi tra gusto giapponese e scandinavo, vera sciccheria molto di moda) è un tripudio di sobrietà radical e allo stesso tempo claustrofobica. Cemento e legno dominano, colori sui toni del beige, giallo e mattone, doghe in legno utilizzate come pareti e diaframma tra gli spazi (Alvar Aalto docet), giardini interni, finestre a lucernario e a sporgenza. Tutto concorre a creare un’atmosfera sospesa e ovattata che rende perfettamente il senso di calma apparente in cui la casa è immersa, come portatrice di una rabbia repressa e sotterranea. Pochi pezzi di design ma scelti con cura (tra gli altri, un pregevole divano sui toni del ruggine e delle sedute Tamago) svettano tra il salotto e la cucina, rare le linee curve e avvolgenti mentre predominano spigoli e tagli netti (“Più curve! Umanizza questo spazio!” esorta Fumi, la severissima suocera di Amy).

 

Stesso destino per il bagno di casa, teatro “liquido” della prima ripicca messa in atto da Danny: piastrelle lucide, sottili e posate in verticale e ancora una volta un lucernario che fa filtrare la luce come se ci si trovasse nel fondo di un pozzo. Ma tutto questo appare un’inezia in confronto alla casa-museo del capo di Amy, Jordan. Nella realtà si tratta di un edificio (la House of Books) all’interno del campus Brandeis-Bardin dell’American Jewish University di Brandeis, in California. Un’imponente struttura in stile brutalista progettata all’inizio degli anni Settanta, massiccia e caratterizzata da una spinta centripeta dei volumi, granitica e intimidatoria come la padrona di casa. Anche qui la scenografa Grace Yun ha modellato gli spazi sulla falsariga dei personaggi che al loro interno si muovono. “Sono abitata da un grido” recita il titolo di un episodio, citando Sylvia Plath. Le architetture di Beef raccontano soprattutto questo.

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