L'architettura dei professori: preventiva e démodé
Alessandro Armando e Giovanni Durbiano si chiedono che tipo di sapere è quello del progettista: umanistico o tecnico o terza via? Da Napoli risponde Renato Capozzi, con un sogno razionale e moderatamente autoconsolatorio. E poi c'è la collana di Valerio Paolo Mosco
Mentre la Biennale di Venezia dà spazio a una nuova generazione neoradicale di architetti che dicono “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e cioè che non si sentono più costruttori ma organizzatori dello spazio esistente dunque non vogliono più i professionisti di un tempo, men che meno le archistar, ecco invece che i professori italiani rispondono con la consueta posa da intellettuali attardé che da sempre caratterizza la nostra cultura. Risposte preventive e démodé, naturalmente. Aprono le danze Alessandro Armando e Giovanni Durbiano con Critica della ragione progettuale (il Mulino, 184 pp., 18 euro) che rinnovano il dialogo con la filosofia se non altro perché i più noti filosofi italiani, da Eco a Vattimo, da Cacciari ad Agamben, hanno tutti insegnato nelle facoltà di Architettura. Il volume collettivo si pone un interrogativo esistenziale, che tipo di sapere è quello del progettista? Umanistico o tecnico o una terza via? Problema annoso che si trascina dai tempi dell’Illuminismo, forse è solo il problema di “dare figura simbolica a idee già definite”, ma con la burocrazia crescente di mezzo pare un’impresa titanica – grazie al superbonus infatti i geometri hanno ufficialmente superato per parcelle sia ingegneri sia architetti. Maurizio Ferraris, coinvolto con un saggio, invece che Imparare da Las Vegas si propone provocatoriamente di imparare da Albert Speer, guardando cioè al caso opposto all’oggi ovvero quando un tiranno poteva assoldare un architetto e costruire senza intermediazioni, quando c’era cioè “solo la politica separata dalla tecnica”. La burocrazia, ricorda però Renzo Piano, fa rima con democrazia e allora invece che abbattersi o piagnucolare bisogna darsi da fare: “Gli architetti non sanno mai davvero quali saranno gli effetti finali dei loro progetti – e quando pretendono di avere una presa immediata sul mondo futuro tendenzialmente falliscono, sulla carta o (peggio ancora) nello spazio abitato. La risposta alternativa, più modesta e forse anche meno coraggiosa, è di considerare come opere degli architetti, ben prima degli edifici, i loro documenti di progetto”. Da Napoli risponde Renato Capozzi, Sull’ordine. Architettura come cosmogonìa (Mimesis, 144 pp.,€ 12 euro), un sogno razionale e moderatamente autoconsolatorio che, tra disquisizioni filosofiche ed etimologiche, all’informale prodotto dal fluire del territorio attuale contrappone le ordinate e rimpiante ipostasi architettoniche del moderno, quasi a dire “Dubitare di Dio, credere in Mies”. Infine Valerio Paolo Mosco, docente a Venezia, ha inaugurato una collana diretta da lui stesso – “Temi” – dedicata a concetti estetici rilevanti per l’architettura contemporanea, il secondo dei quali è Kitsch (LetteraVentidue, 144 pp., 9,90 euro), gli altri sono frugalità, fragilità, nudità, manierismo, per riappropriarsi di un’analisi tematica “preludio necessario a qualunque teoresi, senza il quale le forme, inseguendo loro stesse, scivolano inevitabilmente nell’entropia”.