Paolo Sorrentino e Matteo Garrone al Festival del Cinema di Cannes nel 2008 (LaPresse)  

i due capitani

Sorrentino e Garrone rivali di Oscar e di quartiere

Michele Masneri

Sembra di tornare a sessant’anni fa e alla sfida tra Visconti e Fellini, uno col “Gattopardo” e l’altro con “Otto e mezzo”. Col nuovo film “Io Capitano” Garrone punta all’Oscar e risponde alla “Mano di dio” di Sorrentino. Storia di due talentuosi ex vicini di casa

Come faremo adesso? Come faremo cioè ora che anche Matteo Garrone col suo bellissimo e struggente “Io Capitano”, è imbarcato verso gli Oscar, e ove mai – glielo si augura – tornerà a casa con la prestigiosa statuetta, toglierà lo scettro di Gran Regista Nazionale a Paolo Sorrentino? Con questo “coming of age” o come si diceva una volta bildunsgroman, insomma romanzo o film di formazione, designato dall’Italia per la corsa all’Oscar per il miglior film internazionale e già vincitore del Leone d’argento a Venezia, Garrone si accosta pure al tema di “E’ stata la mano di Dio”, due storie che hanno in comune il diventare adulti attraversando i drammi della vita, uno nella Napoli degli anni Ottanta, ragazzo della media borghesia devastato da una tragedia famigliare, l’altro nell’Africa martoriata che sogna l’Italia e a sedici anni conduce un naviglio verso la salvezza. 

 

Ove mai vincesse l’Oscar, Garrone si posizionerebbe in un empireo globale che riporterebbe l’Italia al glamour della sfida Visconti-Fellini: sembra di essere insomma dentro il libro di Francesco Piccolo sull’anno formidabile 1963 in cui si giravano sia “Il Gattopardo” del regista araldico, sia “Otto e mezzo” del romagnolo fatale. Gelosie, dispetti, invidie. Sessant’anni dopo, ecco nuovamente due registi di gran talento e gran rivalità: finalmente un po’ di star system.

 

Certo, c’è anche Luca Guadagnino che pure lui è in zona Oscar, in area pregio globale, con “Chiamami col tuo nome” che nel 2018 prese la statuetta per la migliore sceneggiatura non originale grazie a James Ivory. Però con le sue patinate storie Guadagnino pare più di nicchia, meno nazionalpopolare degli altri due. Il fatto è, piuttosto: ma tra Sorrentino e Garrone, chi dei due è Visconti, e chi è Fellini? Tutto porterebbe a pensare che Sorrentino con le sue tematiche e coi suoi omaggi espliciti si collochi nel solco del Grande romagnolo. I movimenti di camera, il grottesco e la sontuosità, la Grande Bellezza che è una Dolce Vita 2.0 e l’evocazione esplicita in “E’ stata la mano di Dio”. Già, però Garrone non sembra certo viscontiano.  Ma andiamo con ordine. I due da sempre conducono esistenze parallele: nel 2008 a Cannes trionfarono “Il Divo” e “Gomorra”, e si parlò giustamente di grande rinascita del cinema italiano. Non capitava dal 1972 quando “Il caso Mattei” di Francesco Rosi e “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri si divisero la Palma d’oro. Nel 2008 la palma alla fine non se la prese nessuno dei due, ma loro si dissero “orgogliosi di rappresentare l’Italia e felici di essere uno stimolo per tanti registi in cerca di strade meno ovvie”.


Quell’anno non vinsero quelli che poi sarebbero diventati due grandi classici italiani. Il film che narrava Andreotti, il più felliniano dei politici (i due erano legati anche da amicizia), e dall’altra parte lo scarno film tratto dal libro di Saviano prima delle saghe di massimo successo però di tutt’altra estetica. A fare Andreotti era, ovviamente, Toni Servillo, attore feticcio di Sorrentino che gli ha fatto interpretare tutti i protagonisti dei suoi film (anche due per volta, come in “Loro”, sottovalutata ricognizione sul berlusconismo in cui a un certo punto Servillo fa sia Berlusconi sia il suo doppio Ennio Doris, il banchiere che immensi profitti ha portato ad Arcore). In questo Servillo sta a Sorrentino come Mastroianni a Fellini, mentre Garrone non ha un suo alter ego. I suoi interpreti sono facce spesso prestate al cinema, come nell’ultimo “Io Capitano”, con gli attori presi dalla strada Seydou Sarr e Moustapha Fall, o esordienti come nel film che lo impone, “L’imbalsamatore” del 2002, che come spesso succede a Garrone deriva da casi anche estremi di cronaca (l’Imbalsamatore, Peppino, è un tassidermista napoletano affetto da nanismo. Nel suo mestiere è talmente bravo da essere richiesto persino dalla camorra, che lo usa per estrarre la droga dai cadaveri utilizzati come copertura dei propri traffici. Peppino conduce un’esistenza solitaria fino a quando incontra Valerio, un ventenne alto e bellissimo di cui si innamora subito. La storia era ispirata al famoso “nano della stazione Termini”). 

 

Se il cinema di Sorrentino è tutto in lussureggiante aggiungere, quello di Garrone è in scarno levare, e forse per questa ricetta il primo piace di più agli americani, che l’hanno consacrato con l’Oscar, e il secondo ai francesi, che da sempre lo adorano, anche se con “Dogman”, storia micidiale tratta ancora una volta da un caso di cronaca, quella del famoso “canaro” della Magliana, Garrone aveva sperato nella statuetta ed era piaciuto molto ai critici americani.


Differenze etniche: è napoletanissimo Sorrentino, figlio della middle class del Vomero (padre bancario e madre casalinga) e poi orfano di entrambi i genitori dall’età di sedici anni, mamma e papà morti tragicamente per colpa di una stufa nella casa di montagna; lui salvo per miracolo per aver ottenuto il permesso di andare a vedere sul campo Diego Armando Maradona. La facoltà di economia, abbandonata per il cinema, come si è visto in “E’ stata la mano di Dio”.

 

L’upbringing di Garrone è più radical chic. Oltre che romanissimo: Roma nord, per la precisione, e famiglia di artisti, con padre critico teatrale, madre fotografa e gioventù alternativa, liceo artistico che gli ha lasciato una seconda passione, fare il pittore (“Mi dedicavo a una pittura a olio sin troppo figurativa”, ha raccontato. “Molti amici che hanno posato per i miei quadri successivamente sono entrati a far parte dei miei film”). Curioso come Roma nord produca talenti borghesi dotatissimi anche nel descrivere i bassifondi; è anche il caso di Niccolò Ammaniti. 

 

E poi  – in Garrone –  il sogno di una terza passione o carriera, diventare tennista. Lo salvò, raccontò Marianna Rizzini su questo giornale, il timore di un destino da cliché e Tenenbaum de ’noantri: diventare allenatore, magari in quei club Parioli o Belle Arti tra i medici e i notai e i tram su per villa Borghese. A quel punto decise di iniziare a lavorare nel cinema come aiuto operatore e fotografo di scena. 

 

Sorrentino invece ama il calcio. Tutti e due poi conducono una vita appartata. Sorrentino appartatissima, tra l’Esquilino e i Parioli e Capalbio dove non esce di casa per nessun motivo (come biasimarlo). C’è ma non c’è, di sicuro non lo si vede alle feste o agli aperitivi, con poche incursioni da antropologo nella Roma più decadente. La moglie Daniela D’Antonio non ha nessuna parentela col re dei parrucchieri Roberto D’Antonio che pure è uno di casa, intimo, personaggio lui sì da grande bellezza, si narra che possa fare lui solo i capelli a Sorrentino, caso di esteta-guru-sensitivo con salone a via dei Prefetti (dove taglia e pettina  e ascolta le confessioni da Fanny Ardant a Matteo Salvini) e casa a palazzo Doria Pamphilj sotto Dudù La Capria, altro grande mito sorrentiniano nella terrazza che affaccia su piazza Grazioli (tra l’altro La Capria soffriva molto la presenza del “Dudù”, barboncino berlusconiano proprio lì di fronte). 
Tra i lini candidi e i Borsalino e la costiera più araldica si sa che Sorrentino lavorò a un soggetto su “Ferito a morte”, ma qui noi sogniamo piuttosto un “Leoni al sole” rifatto da lui, anche lì del resto meditazione sul tempo che passa e sulla mancanza di senso in un teatro sociale, qui nel presepe di Positano, magari oggi tra i tiktoker più efferati dell’overtourism. 

 

La Capria è una delle, direbbero nella moda, reference sorrentiniane. “Non c’è dubbio, Jep Gambardella un po’ mi assomiglia”, disse lo scrittore all’uscita del film. Sorrentino poi è scrittore pure lui, è stato finalista al premio Strega nel 2010 con “Hanno tutti ragione”, romanzo di Tony Pagoda cantante di night. A piazza Vittorio un “classico” erano i pranzi di Daniela – giornalista, già al Venerdì di Repubblica, oggi importante ufficio stampa di cinema, discendente da una grande dinastia ristoratrice napoletana – con cui ingolosiva le star di Hollywood con i suoi manicaretti napoletani. In questo i Sorrentino sono più borghesi, più viscontiani, mentre Garrone è sempre stato più errabondo e anche più hardcore. “Le mie ossessioni sono l’amore e il sesso”, ha detto qualche anno fa in un’intervista, e del resto si favoleggia della sua frequentazione di locali per scambisti come il Degrado, un vecchio avamposto della notte romana sulla Casilina. Come ha ricordato Dagospia: “Scortata da Garrone, una notte è apparsa Pina Bausch che stava facendo lo spettacolo ‘Palermo Palermo’ al Teatro Argentina e voleva vedere la vera Capitale. A un certo punto accendiamo le luci e una travestita urla: ‘Aoh! spegnete le luci!’, e io dico: ‘Ma che sei matto, c’è Pina Bausch…’. E lei: “Ma io stavo a fa’ un bocchino… nun me ne frega ’n cazzo de sta’ Pina!’”.

 
Se il romano Garrone è affascinato da Napoli, sappiamo che Sorrentino ha saputo raccontare Roma come era riuscito prima solo a Fellini. “Napoli è una città che mi affascina per lo straordinario vitalismo e la forza espressiva della sua gente già cara a Pasolini e Fellini”, ha detto Garrone, “ma che nel contempo sfida a non perdersi nelle sue infinite sollecitazioni. Ed è uno stimolo artistico impareggiabile quello di cercare di mettere ordine in questo caos energetico, d’individuare ogni volta una linea figurativa in sintonia con la storia che sto raccontando”. “Ho fatto crescere i miei figli a Roma perché Napoli mi spaventava”, ha detto invece  Sorrentino. I figli sono due, Carlo e Anna. 

 

Ma anche Roma può spaventare, e attrarre. In questo Garrone è molto pasoliniano, sia nella scelta di attori non professionisti che nel confronto con le zone d’ombra della città. “Subisco il fascino della violenza, è parte della vita”, ha detto lui, che sguazza soprattutto nella Roma notturna, in quelle atmosfere da romanzi di Walter Siti sulle borgate, mentre i film di Sorrentino sono sinfonie sul senso della vita e soprattutto della morte, travestite da affreschi sociali (Jep Gambardella che teorizza la rilevanza dei funerali a Roma, ma anche Andreotti che canta “I migliori anni della nostra vita” davanti alla tv in tinello).

 

In comune hanno l’età, Garrone è del 1968 e Sorrentino del 1970, e anche che si scrivono loro i loro film, mentre la vita privata, si è capito, è abbastanza diversa. Garrone pare un po’ più fricchettone. Ha raccontato che i due attori africani di “Io Capitano” ora stanno vivendo a casa di sua madre. Lui invece a un certo punto si è sposato con una signora, Nunzia De Stefano, ex domatrice di elefanti (esiste qualcosa di più felliniano?) conosciuta durante la lavorazione di “Gomorra”, detta “la Cenerentola di Scampia”. Cenerentola di Scampia che l’avrebbe aiutato molto durante le riprese, per fargli comprendere bene mood ed estetiche gomorresche. Con la Cenerentola ha avuto un figlio, Nicola, che vive ancora con la madre all’Esquilino, nello stesso palazzo di Sorrentino, mentre Garrone padre si è trasferito sulla Tiburtina, in studi cinematografici con giardino. 

 

Ma la fuga dall’Esquilino pare il destino parallelo dei due artisti; Garrone se n’è andato da tempo e anche Sorrentino proprio in questi giorni si sta trasferendo, ai Parioli. Insomma, finita la bohème  i due grandi registi si ingrandiscono e mettono su la magione. Anche qui, vale ricordare i due domicili romani di Fellini e Visconti; il primo in via Margutta 110, tra le ghiaie più nobiliari di quegli studi d’artista, mentre Visconti stava nel casone dentro Villa Ada ereditato dal padre, don Giuseppe, immaginifico gentiluomo di corte della regina Elena. 


All’Esquilino rimarrà l’ampia letteratura degli scontri condominiali a piazza Vittorio, piazza di colori e di resistenza urbana e anche scazzi. Garrone raccontò una volta: “Abitiamo nello stesso condominio… ma io, nel periodo dell’Oscar, evitavo di incrociarlo in ascensore. Diciamo che non siamo da pacche sulle spalle…”). C’è poi la storia dello smoking, sempre in ascensore, che ricorda quella di Fellini e Flaiano quando volano agli Oscar  per “Otto e mezzo”, uno in business class e uno stipato in economica (furioso). “In quel periodo vedevo sempre Sorrentino salire e scendere con l’ascensore”, ha raccontato Garrone, “e in quei pochi secondi ci guardavamo con se fossimo a duello in un film western. Bene, mancavano pochi giorni alla Notte degli Oscar ed entrambi sapevamo che ‘La grande bellezza’ avrebbe vinto, quindi cercavo in tutti i modi di non incontrarlo. Un giorno di fronte all’ascensore vidi una bella ragazza che aspettava, decisi di salire con lei e, finalmente calmo, le parlai notando cosa aveva in mano. Solo allora che mi accorsi che la stavo accompagnando a portare lo smoking a Sorrentino per la grande notte. Andai a casa sentendomi in una sceneggiatura di Ernst Lubitsch…”.

 

Il Lubitsch esquilino si sarebbe rinnovato anche recentemente, con delle pizze ordinate da uno e recapitate per sbaglio  al figlio dell’altro, che se le sarebbe magnate, e lì il povero Glovo non sapeva che stava causando ulteriori frizioni nello star system italiano (ma  magari tutto questo finirà tra cinquant’anni in un prossimo libro sulla rivalità tra i due grandi registi di un futuro Francesco Piccolo, che abita pure lui nel quartiere, peraltro, e almeno lui non se ne va, vabbè). 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).