Autobiografia serenissima di Marino Folin
Con "Inventario. Le cose e la casa" (Marsilio) il secondo rettore più longevo dell’Iuav ha molte storie da raccontare e lo fa indirettamente, facendo cioè parlare gli oggetti di una vita
Nessun altro come Marino Folin incarna meglio il genius loci veneziano: barbuto come i migliori dogi - Mocenigo, Donà, Gritti -, dotato di crine leonino come la fiera alata di San Marco, porta un nome che viene dal mare e un cognome che viene dal Veneto. Compagno di classe di Massimo Cacciari al Liceo Marco Polo, quando tutti erano segretamente innamorati di Nicoletta Strambelli (non ancora Patty Pravo) che però faceva il Conservatorio, Folin è giunto al traguardo degli ottant’anni e perciò ha licenziato un libro che è un testamento intellettuale, Inventario. Le cose e la casa, e non poteva non essere pubblicato da una casa editrice veneziana (Marsilio).
Essendo stato, dopo Giuseppe Samonà, il secondo rettore più longevo dell’Iuav ovvero un piccolo ateneo autonomo e non una facoltà come tutte le altre negli ultimi anni dell’âge d’or – quella dei professori Vittorio Gregotti, Manfredo Tafuri, Gino Valle, Bernardo Secchi, Carlo Aymonino, Aldo Rossi - ha molte storie da raccontare e lo fa indirettamente, facendo cioè parlare gli oggetti di una vita. Il suo vecchio amico dei tempi in cui dirigeva l’Istituto Gramsci Veneto, Alberto Asor Rosa, avrebbe incluso questo libro nella memorialistica, un genere poco frequentato in Italia eppure apprezzabile perché tiene sotto controllo le tentazioni di auto-mito-biografia alle quali invece di norma cedono sempre gli architetti. Folin però non ha mai avuto il cipiglio austero dell’intellettuale di sinistra pur essendolo stato a pieno titolo, vedi La città del capitale (De Donato 1972, tradotto anche in Messico nel 1977): battuta pronta e risata omerica, è stato un inguaribile festaiolo e perciò un perfetto curatore del Padiglione Italia alla Biennale del 1996 diretta dal primo direttore straniero, Hans Hollein.
Se lo si voleva trovare, negli anni ’90, bastava andare al disco bar Round Midnight in fondamenta dello Squero, vicino alla sua casa natale mentre, nel decennio successivo, fonti inoppugnabili testimoniano una sua danza scatenata con una celebre ex modella brasiliana anche per il suo affollato sessantesimo compleanno, naturalmente in un palazzo sul Canal Grande.
Si è sempre vestito in soli due modi che denunciavano la stagione in corso, ovvero in lino bianco nelle estati che a Venezia sono sempre state un po’ più lunghe e in nero nel resto dell’anno, compreso il tabarro invernale d’ordinanza indossato ben prima che tornasse di moda. Trattasi di un mantello desueto ed esotico sotto il Rubicone, tanto che nei lunghi anni del dogato, pardon, rettorato, in uno dei frequenti viaggi a Roma per via di beghe ministeriali, “al McDonald’s di Fiumicino lo scambiarono per un mendicante e gli offrirono, senza farlo pagare, un cheeseburger con patatine fritte e ketchup” (p. 419).
Gli oggetti accumulati in una vita si sono accasati dunque in questo appartamento ricavato in un edificio antico dove per secoli ha avuto luogo un postribolo nel cuore della città lagunare. Dai bicchieri disegnati da Adolf Loos acquistati mentre era ospite di Arrigo Cipriani all’Herry’s Bar di New York, al tavolino di Massimo Scolari con le maniglie ad ali, gli oggetti raccontano. Nel Rinascimento a Venezia i testamenti erano compilati elencando gli oggetti in ogni stanza della casa: et fili filiorum et semen illorum habitabunt in saecula (e i figli dei figli e la loro discendenza abiteranno nei secoli). Tanti auguri, Magnifico.