Terrazzo
Le Corbusier invitato di pietra
Un libro di Rafael Moneo sulla cappella di Ronchamp
Film amato da Pasolini e Moravia, L’invitée di Vittorio De Seta è il penultimo lungometraggio del regista noto principalmente per i suoi documentari. Il film ignorato dal pubblico e ad oggi pochissimo noto pur restando uno dei suoi migliori, mette in scena una coppia di inquieti molto diversi tra loro, ma legati a un desiderio di fuga interiore che li porta ad attraversare una Francia invernale da nord a sud. Lei una giovane illustratrice, interpretata da Joanna Shimkus, fugge da un marito distante che probabilmente l’ha tradita nel suo ultimo viaggio, lui invece è un architetto di “successo” interpretato da Michel Piccoli (il primo architetto della sua carriera, seguirà il dolente Pierre Berard in Les Choses de la vie). Fuggono verso sud, lei sperando di cambiare vita e di uscire da un amore probabilmente malato, lui alla ricerca di nuovi stimoli e speranze.
Uno dei punto di svolta è la visita alla cappella di Notre-Dame du Haut situata a Ronchamp e progettata da Le Corbusier. Il film del 1969 diventa così un breve omaggio al grande architetto scomparso pochi anni prima e al tempo stesso l’espressione di un rimpianto. Una rivoluzione fallita, un tentativo di felicità – anche questo sottolinea Piccoli – perduto chissà dove, forse in un funzionalismo incomprensibile, “in un soffitto di cemento e in una parete esageratamente spessa che nulla sostiene e che nulla ha di funzionale”.
Il film è il racconto di una disillusione ancora comune e che in parte unisce i due protagonisti descrivendo lo spirito già sconfitto del tempo. Seguiranno poi anni di feroce critica, quasi un annientamento di sentimenti architettonici che mostrarono inadeguatezza per la loro stessa utopia, Un’ingenuità forse che oggi merita attenzione e una nuova cura. Un patrimonio prezioso quello della cappella di Ronchamp che viene preso in analisi da Rafael Moneo. Premio Pritzker nel 1996, a ottantasei anni Moneo manda in libreria un piccolo libro dal titolo icastico, Ronchamp (Electa, traduzione di Stefano Giuliani) che contiene una rilettura passo passo del capolavoro di Le Corbusier. Un’interpretazione che viene da un tempo che fu comune, ma scritta ora che i giochi non solo sono chiusi, ma che si fa necessario riscoprire gli elementi che furono alla base di un’utopia che viveva della forza dirompente – artistica e letteraria – del primo Novecento.
Progettata nel 1950 e realmente conclusa solo quarantacinque anni dopo, l’opera di Le Corbusier rappresenta infatti un nodo obbligatorio per chi si formò in quegli anni e vide plasticamente anno dopo anno come la cappella vivesse di una perenne inquietudine, un po’ come i protagonisti totalmente novecenteschi di De Seta. Ronchamp diviene così nella sua messa in opera lunga e laboriosa una rappresentazione della mutazione del Ventesimo secolo: ovvero dalle ideologie alle rigenerazioni. L’insostenibile leggerezza del cemento per dirla con Kundera o forse con D’Agostino, del resto l’uno fu funzionale all’altro, come mai dopo il Novecento sarà più possibile pensare e mischiare.