TERRAZZO
Belle ma non ci vivrei. Torri, tombe e altre architetture inabitabili. Un libro
Da una mostra ospitata alla centrale Montemartini a Roma nasce "Architetture inabitabili", il volume a cura di Chiara Sbarigia che descrive i luoghi difficili da aredare
"Bisogna sempre ricordare che fare architettura significa costruire edifici per la gente, università, musei, scuole, sale per concerti: sono tutti luoghi che diventano avamposti contro l’imbarbarimento", dice Renzo Piano. E quindi le architetture inabitabili? Ciò che viene costruito e poi, per qualche motivo, non è più per “la gente”? Forse è barbarie. È barbarie il Gazometro sulle sponde del Tevere, soggetto preferito dell’estetica industriale con sterpaglie di Instagram, e forse è barbarie anche la Torre Branca, che timida cerca il suo spazio nello skyline sempre più affollato della Milano post Expo. Partendo da una mostra ospitata alla centrale Montemartini, a Roma, è stato messo insieme un volume, intitolato appunto "Architetture inabitabili", a cura di Chiara Sbarigia per Marsilio Arte, dove immagini di fotografi – Francesco Jodice, Basilico, Scianna… – accompagnano testi di scrittori celebri su specifici luoghi difficili da arredare (anche se, vista la situazione immobiliare, un loft-studio sulla Torre Branca potrebbe anche risultare credibile).
Tiziano Scarpa, cannibale canonizzato, vergognandosi va per la prima volta a sessant’anni a vedere la tomba Brion, ora che è anche set del nuovo Dune con Timothée Chalamet. Si infila addirittura in uno degli anelli (Tiziano Scarpa, non Chalamet), “l’avevo attraversato, anche se non sono progettati per essere una soglia”, “ho fatto un uso abusivo di un progetto scarpiano”. Andrea Canobbio diventa la voce della fabbrica, del Lingotto: “Passeranno i secoli ma io resterò come lo scheletro del dinosauro che emerge dalla sabbia”. La bestsellerista Stefania Auci racconta la land art trapanese di Burri: l’artista “ha pensato a un grande cretto, dicono, proprio come la spaccatura che si produce nel terreno quando il sole colpisce la melma e la trasforma in zolle durissime”. E poi, spicca tra gli altri Edoardo Albinati sul già citato Gazometro, “un fantastico castello d’acciaio” (diceva il cinegiornale dell’epoca) tra “ville patrizie e torrette”.
Il Gazometro nell’era social ha ripreso una nuova vita per chi è stanco del barocco e delle colonne antiche da turisti; dai millennial urbani viene fotografato e postato più dell’illusione ottica di via Piccolomini, col cupolone che si ingrandisce. Nella didascalia ci si mette #tramonto #archeologiaindustriale #pasolini, che va sempre bene quando si parla di Roma non borghese.
Amato da intellettuali e coatti, insomma. “Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento”. Quando ci si entra, sembra di stare “in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature”. Oggi, inutilizzato, il Gazometro “è una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il solco vuoto, il corpo dell’animale vivo”.