(foto LaPresse)

Terrazzo

La Milano a colori di Italo Rota (1953-2024)

Michele Masneri e Manuel Orazi

Il mondo dell’architetto che se n’è andato sabato era abitato da libri,  musei, ma anche  Topo Gigio. E perfino una tomba etrusca

Non era mai assurto a “venerato maestro” e molto se ne compiaceva. Preferiva di gran lunga la categoria di architetto “pornografico” come i cultori del rigore disciplinare lo avevano sempre etichettato. Del resto, Italo Rota, scomparso sabato a Milano all’età di settant’anni, è sempre stato un provocatore, nei progetti e nella vita. Per come si vestiva all’orientale, per come cucinava, per come disegnava, per ciò che collezionava, per come si è sposato alla maoista (come nella scena iniziale del “Caimano” di Nanni Moretti) con la più importante scenografa italiana, anzi italosvizzera, Margherita Palli, e anche per come conduceva la Naba: l’unica scuola a non avere un ufficio del direttore. Gianluigi Ricuperati ha scritto sulla Stampa, giustamente, che aveva una vocina felliniana, ma va aggiunta anche la capacità affabulatoria, bugie comprese, del regista.

 

Aveva iniziato come disegnatore prima da Franco Albini (che aveva definito “un grandissimo maestro e un uomo cattivo”) e poi da Gregotti (“di cui oggi non mi piace nulla”, riferì recentemente) insieme coi due Pierluigi, Cerri e Nicolin. Insieme lavorarono ai migliori progetti dello studio come quello per l’Università della Calabria – molte tavole a scala territoriale sono sue – e poi a “Lotus” alla fine degli anni 70, quando la redazione era accanto a quella di “Casabella” diretta da Maldonado dove Mario Lupano, amico di una vita,  ricorda: “Costruiva i menabò in forma di splendide maquette tutte disegnate a mano”. Poi vennero Parigi, Gae Aulenti lo rapì per il rinnovato Musée d’Orsay e moltissimi altri allestimenti temporanei per mostre di architettura, moda, arte, fotografia, l’insegnamento a Belville e due figli, Emilia e Ugo. Ugo dopotutto era stato il nome di suo zio, nullafacente e con la retina sui capelli come lo zio di Titta in “Amarcord”, altra analogia felliniana (ma Ugo fu anche un amato segugio, che lo assaliva in un lontano capodanno in cui l’architetto si presentò agli ospiti in tuta arancione e casco da astronauta, vero). 


E lo zio Ugo era citato anche ieri nel necrologio fantasioso dei figli, che elencavano tra i “ringraziamenti” per quel padre speciale – un po’ alla Sorrentino agli Oscar  – “Bruce Lee, Jurij Gagarin, Austin Powers, Kurt Schwitters, Ludwig Wittgenstein, Lawrence d’Arabia, lo Zio Ugo, appunto, i Thunderbirds, Jean-Jacques Lequeu, Vladimir Majakovskij, Marcel Duchamp e gli altri membri della sua Fiera Campionaria” (superando anche in necrologia espressionista il duo Guadagnino e Antonelli che per l’occasione si era ripresentato, dopo una pausa.  A metà degli anni 90 Rota era  tornato in Italia e nasceva lo Studio Italo Rota & Partners di via Bronzetti con il socio storico Alessandro Pedretti, un ufficio sempre pieno di caschi da astronauta sovietici e pupazzi di Topo Gigio come la sua casa al piano terra, simile a quella di Roberto D’Agostino a Roma, ma qui siamo a Milano quindi si vola bassi, non negli attici. Boîte à miracles che ne conteneva a sua volta molte altre ricolme di capolavori dell’editoria collezionate e spesso prestate a grandi musei internazionali per motivi di studio – il contrario di ciò che normalmente succede. A casa cucinava lui, del resto figlio di un cuoco sulle navi da crociera.

 

La casa era come le sue frequentazioni: miste e sfiziose e pop: non solo topi di peluche, ma tanti animaletti di  gomma dura di quelli che si trovano nelle migliori librerie, passione che condivideva con un altro dioscuro delle arti milanese, e amico, Giovanni Agosti. E poi robot, ritratti di Mao e Lenin e tutte le porte disegnate con angoli “passanti” per i diversi gatti che erano i veri padroni di casa, e amicizie poliedriche com’era lui, compresa quella con Antonio Ricci. D’altro canto Margherita Palli ci raccontò che una delle grandi soddisfazioni era stata la famosa mostra da lei progettata, su “Striscia la notizia” alla Triennale. Partita con le peggiori aspettative (Ricci si aspettava una barbosa intellettuale, Palli un vacuo televisivo, finì con  code che partivano “da Cadorna” e arrivarono 20.000 visitatori), nacque anche una grande amicizia. 


Poco ideologico anche  in politica, Rota fu effimero assessore col sindaco Formentini, leghista subito dopo Tangentopoli (quei leghisti che all’epoca ci parevano il male e oggi rimpiangiamo come dei lord  da club inglese). Fece in tempo a compiere un gesto situazionista indimenticato: propose come nuova mascotte cittadina un pupazzo disegnato da Luigi Ontani  chiamato “Grillo Mediolanum” e immediatamente detestato da tutti, ribattezzato “Bagonghi”, ma anche “sgorbio”, “bestemmia”, “pagliaccio sciancato e deforme”. Reggeva in mano una merda d’artista e in testa un panettone. Era l’epoca della “Milano impresentabile”, molto prima degli Expo; ma il sindaco della Milano scintillante d’oggi, Beppe Sala, ha ricordato come Rota fu uno dei pochi ad appoggiare il progetto dell’Esposizione universale anche quando non ci credeva nessuno.


Si vantava di non aver mai costruito una sola casa, tranne una strana villa tutta traforata  a Firenze per Roberto Cavalli, che gli aveva commissionato  i negozi e i club Cavalli nel mondo, da Miami a Dubai; in quest’ultimo con lampadari di vero diamante. “Non c’è bellezza senza qualche goccia di cattivo gusto. Anche la genialità di Prada si gioca su questo delicato equilibrio” aveva detto anni fa a Francesco Merlo. E’ l’unico architetto italiano che abbia costruito un tempio in India, una tomba etrusca – disegnata insieme alla moglie Palli per l’amico Luca Ronconi – e allo stesso tempo a cui sia stata bocciata una chiesa dal Papa (nello specifico da Ratzinger, Tor Vergata:  “Non gli piacquero la grande croce rossa e le sedie di plastica”, raccontava).  


Tra le cose che non è riuscito a finire, il  restyling interno del palazzo Niemeyer della Mondadori a Segrate, progetto che piaceva a Marina Berlusconi, e una mostra in programma al Maxxi di Roma. Considerava ogni progetto come un atto unico, da affrontare in maniera diversa che fosse negozio, accademia, rivista o libro, ispirandosi al regista Kubrick che aveva amato in gioventù. Non dunque eclettico come tutti pensano, ma manierista, in grado di     valorizzare l’architettura dove è intervenuto, riutilizzando sempre edifici preesistenti come i Musei civici di Reggio Emilia o il Museo del Novecento di piazza Duomo a Milano. Da poche settimane è uscito un doppio volume, “Italo Rota. Solo diventare natura ci salverà” (Scheiwiller) che raccoglie il suo lavoro, comprese le ultime opere firmate insieme a Carlo Ratti.
 

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