Terrazzo
Salone del Mobile 2024: cosa fare, cosa vedere e cosa far finta di aver visto
Tra mare e monti, l'edizione di quest'anno è un fritto misto: d'altronde c'è la Design Week milanese in concomitanza con la Biennale di Venezia. Un girotondo fogliante per orientarsi durante l'evento
Macrosalone, macroregione
Lo si dice un po’ ogni anno, ma Milano pare tornata agli splendori asburgici, capitale del Lombardo Veneto, in questa Design Week 2024 spalmata ormai dal Duomo a San Marco e sfrangiata tra settimana dell’arte, del design, della Biennale veneziana. L’utente è confuso. Troppa scelta. Serve una no-week week, dove non succede nulla. Ma intanto: si andrà a Montenapoleone a vedere le creazioni o ricreazioni del nuovo designer di Gucci Sabato De Sarno che reinterpreta “icone”? Oppure alla mostra sui 40 anni di Technogym in via Durini, per vedere come sono cambiate le ginnastiche? Ah, spingersi fino alla fondamentale Alcova, nella nuova sede dello sgarrupato-chic restauro effimero, di Joseph Grima e Valentina Ciuffi, questa volta addirittura in Brianza? (terra molto cara ai nuovi americani di stanza a Milano, grazie alle ville di delizia e alle buone scuole internazionali).
E cosa mettersi al Bosco-verticale party insieme a Stefano Boeri e all’emiro di Milano Manfredi Catella per i 10 anni del grattacielo? E a Venezia da Saint Laurent? Interrogativi amari: ma forse è Milano che si è mangiata tutto, anche la laguna. Qualcuno diceva: anticipare la Biennale crea sì sovrapposizioni ma almeno per la prima volta non si morirà di caldo tra Giardini e Arsenale (ma il caldo è arrivato comunque). E il padiglione papale favoritissimo? Qualcuno suggerisce: portare tutto a Milano, anche il Giubileo, e facciamola finita. Ma il Papa andrà a Venezia, non al Salone. E stasera, chi presenzierà alla cena che dà inizio alle danze, quella offerta da Luca Bombassei nella sua nuova magione veneziana in onore di Francesco Vezzoli e della sua mostra al museo Correr? (i più fini pronunciano “còrrer”). Tutti dunque sul treno Milano-Venezia (fermo anch’esso alla dominazione austriaca come tempi di percorrenza). Serve subito un elicottero (vedi: Prada)
Michele Masneri
Questa casa non è un albergo
A fine ’800 i fratelli Bagatti-Valsecchi decisero di trasformare la propria residenza in una time-capsule rinascimentale. Alle feste invitavano gli ospiti a vestirsi come ai tempi di Bellini, per non disturbare l’atmosfera. Anche la doccia, una delle prime costruite a Milano, rimaneva nascosta, per conformità al Gesamtwerk. Nei giorni del Salone, nelle stanze che affacciano su via Montenapoleone, a due passi dal Four Seasons, il duo superstar Formafantasma ha organizzato per Prada una serie di talk, un Symposium sull’abitare. “Ci piaceva la contraddizione del parlare delle sfide contemporanee in spazi così opulenti”, dice al Foglio il duo. “Quando tre anni fa abbiamo iniziato la signora Prada ci ha detto: il Fuorisalone è già pieno di oggetti, perché aggiungerne altri?”, e così sono nati questi intimi talk radicali che si fanno tra alabarde, teschi, baldacchini e cassoni.
E in effetti, per sfuggire agli aperitivi dove si resta per venti minuti a fissare uno sgabello in resina e borchie o un’installazione misto moda-design-food, la teoria è rinfrescante, anche in questa piccola Disney neo-rinascimentale con le cit. in latino sui muri. Curatori, accademici, architetti internazionali che parlano di urbanistica, spazi, abitare. Tra questi Jack Self che spiega come il mortgage, il mutuo, sia all’origine del concetto di casa e di proprietà che abbiamo oggi. E che ha distrutto il sistema, e che causa i prezzi folli. “L’unico paese dove non si possono fare mutui è la Corea del Nord”, dice al Foglio l’architetto. Raro esempio di marxista ottimista, in Lacoste nera, Self ci dice che con Occupy Wall Street, MeToo, Extinction Rebellion e compagnia bella qualcosa sta cambiando, in un’ottica da timeline circolare nello stile presocratico. Secondo Self dopo l’era su base economica del capitalismo selvaggio di cui parlano i meme, sta arrivando qualcosa di nuovo. La modernità iniziata con lo slave trade quattrocentesco delle caravelle portoghesi sta finendo. Ma tutto questo come impatta la casa, l’abitare, gli spazi domestici? chiediamo a Self.
“Il cambiamento lo vediamo in due modi, nel bagno e nel letto. Come con la tv che negli anni ’80 è diventata sempre più economica e finiva per essercene una in ogni stanza, ora quasi ogni camera da letto ha un suo en-suite. Non ci sono più household ma individui che condividono un appartamento, ognuno col suo bagno. Cambiano le planimetrie, non più case ma un insieme di camere di albergo”. Con il Deliveroo al posto del servizio in camera. “E poi il letto che oltre che per dormire viene usato per guardare cose in streaming, per mangiare, per i videogame, per lavorare. Il letto non è più per riprodursi, ma per produrre”.
Giulio Silvano
Sotto la Centrale
Anche quest’anno c’è Drop City, una sorta di Fuori-Fuorisalone nei tunnel laterali della stazione Centrale in via Sammartini: “Architecting the Future” a cura di Anneke Abhelakh, Paolo Catrambone e Benjamin Gabilondo. Ogni sera due ospiti e due moderatori che partendo da generazioni diverse parlano di come costruire spazi adattabili a cambiamenti nel tempo. Fra gli ospiti Stephanie Bru, Momoyo Kaijima, Anne Holtrop e la paesaggista olandese Petra Blaisse, Art Applied Inside Outside, pubblicato da Mack, accompagnata da Rem Koolhaas che quest’anno è libero da impegni ufficiali, praticamente l’unico.
Manuel Orazi
Vestivamo alla mendiniana
Anche i musei approfittano del sabba salonico. Al Museo del Novecento apre “Ritratto di città (20/20.000Hz)”, di Masbedo (Iacopo Bedogni e Niccolò Massazza) a cura di Cloe Piccoli, dedicata alla Milano del dopoguerra rivista attraverso le sue espressioni musicali, artistiche, cinematografiche e architettoniche con al centro lo studio di fonologia Rai di Luciano Berio e Bruno Maderna (catalogo Marsilio). La Triennale apre invece in grande stile una personale di Alessandro Mendini a cinque anni dalla scomparsa a cura di Fulvio Irace (catalogo Electa). Definito provocatoriamente da Italo Rota “il Licio Gelli del design italiano”, Mendini ha avuto di certo un ruolo centrale nella disciplina come progettista, docente, consulente aziendale, curatore di mostre, direttore di riviste, insomma talmente tante identità da autodefinirsi “Io non sono un architetto io sono un drago” o meglio un ircocervo con mani da artigiano, piedi d’artista, gambe da grafico, corpo da architetto, petto da manager e però testa da designer.
Il suo ruolo di animatore e il suo sguardo critico gli hanno permesso di carpire il meglio da tutti i colleghi, come ad esempio Ettore Sottsass: “Gli interessa poco pensare al futuro perché la vita non è determinata dai programmi… Per lui progettare non è questione che riguardi l’ideologia, l’ortodossia, ma è fenomeno sensitivo, liberazione delle facoltà creative attraverso una ricerca d’identità in cui la cultura coincida con la natura completa dell’uomo”. La mostra offre dunque circa quattrocento opere mendiniane dove è la quadricromia che risalta in generale: una rivolta contro il grigiore del disegno industriale del suo tempo, certo, ma anche una propria indole: “non è che sono un appassionato, piuttosto ci faccio lo slalom fra i colori”. Indole che la poltrona Proust del 1978 incarna alla perfezione.
Manuel Orazi
Checco Salone
C’è perfino un evento che si chiama Checco Salone. Si parla dell’installazione di David Lynch che porterà qualcuno ad arrivare fino a Rho. Ma intanto è appena finita l’ArtWeek, come aperitivo della stagione-eventi che fa dire a tutti: “ci sentiamo con calma a fine maggio quando torna la calma”. All’ombra di CityLife si stava tutti tra gli stand di MiArt prima che arrivassero le folle – “tanti quadri, tanta sobrietà, sempre meno pop”, ci dice una storica dell’arte. In fiera si cerca di evitare l’effetto Guzzanti a TeleProboscide (e come non si fa a non pensare al Cav accumulatore notturno di tele). Tanti emergenti e venerati maestri e tutto quello che c’è in mezzo. Le foto con gli uccelli di Linda Fregni Naghler, le mega cartoline di Julian Schnabel, i libri appesi di Xiao Zhiyu. Un mega mosaico coi Lego di Ai Weiwei (“È ancora vivo?”, si chiede una sciura francese), un disegno di Giuseppe Stampone con il logo del PSI fatto con la Bic. Autoritratto con babbucce e gambero di Jacopo Benassi. La targa per Karl Marx di Francesco Arena. Ci sono anche i Fontana e i Morandi e i Tancredi e gli Afro e le Accardi. Fotografie di Ico Parisi. Piccoli musei smontabili del ‘900. Chissà se i galleristi sanno distinguere a colpo d’occhio i curiosi dagli acquirenti. Un’opera retrolluminata con una quote di Andy Wharol dice: “Nobody really looks at anything—it’s too hard”. Ma le week non si limitano agli stand senza finestre, si prendono tutta la città. In giro i poster della mostra diffusa di Gioni per la fondazione Trussardi, “Italia 70” – poi tutti a far festa alla Balera dell’Ortica, nuovo bar Giamaica – “Maurizio Cattelan è un tamarro”, dice quello di Maloberti. Mentre a Gemonio appaiono anche lì dei poster, ma di un dipinto che ritrae Umberto Bossi (Padania Week? Italia ’94?).
Giulio Silvano
La sera andavamo al Paradiso
Il Caffè Paradiso ai Giardini della Biennale è il luogo di allegri e colti mischiamenti. Incontri futili quanto decisivi per il destino della Biennale o meglio della sua cura. Restaurato dal milanesissimo Cino Zucchi nel 2018, prima che la pandemia mettesse in discussione proprio la vita danzante di habitué del volo intercontinentale, oltre che luogo di ristoro (non mancano in tanta eleganza le inevitabili caviglie gonfie) il Caffè Paradiso è un vero coworking snob e pop (gli opposti a Venezia si baciano sempre) per curatori internazionali, al punto da dare il titolo al bellissimo volumetto di Massimiliano Gioni che sotto l’insegna di Caffè Paradiso (Johan & Levi) ha raccolto una serie d’interviste a chi la Biennale l’ha curata.
Massimiliano Gioni, curatore, critico d’arte che da Busto Arsizio ha conquistato New York, come solo agli italiani piace dire dei loro migliori figli, rappresenta il fiore all’occhiello di un mondo dell’arte contemporanea da cui l’Italia e gli italiani - che solo di Alberto Sordi hanno memoria -, si sentono sempre un po’ esclusi, ancor più che nel tennis (epoca pre Sinner chiaramente). Gioni che fa coppia fissa con Cecilia Alemani che della Biennale è stata la curatrice nel 2022, ha così ritratto un percorso - partendo dalle interviste fatte per la rivista francese Art Press - che include i curatori della Biennale dal 1993 al 2020. Punto di equilibrio il dialogo con Jean Clair, scomodo ai contemporanei quanto ideatore di una delle migliori Biennali degli ultimi anni. Tanta New York attraversa le pagine di questo libro denso di immagini pluraliste e inclusive.
Uno sguardo pan oceanico capace di portare oltre la mediocrità l’idea di umano, seppure forse un po’ ingenuamente nella teoria come nella pratica. Ma tanto è, perché si avverte fortemente nelle pagine di Gioni la presenza irriducibile di chi a Busto Arsizio ha trovato i natali. Ovvero lo stupore e la meraviglia dell’incontro imprevisto e imprevedibile con il mondo (Germano Celant prima guida e ora nostalgia perenne), di un viaggio che raccoglie quotidianamente una vibrante e gioiosa emozione. Tra Prada e spritz, tra Pinault e Buttafuoco non resta che abbandonarsi almeno per qualche momento al Caffè Paradiso, superstiti e sopravvissuti di un tempo le cui feroci ombre rendono fondamentale anche la più (solo) apparentemente futile testimonianza.