A Milano tutti in kefiah il sabato sera
Il copricapo arabo è tornato di moda, specie nel capoluogo lombardo. E oltre le classiche nera e rossa, sempre a sfondo bianco, ci sono scialli mediorientali di mille combinazioni di colore
Il grande testimonial che ha riportato in auge la sciarpa-copricapo dell’indipendenza palestinese era stato Arafat che se la metteva in ogni occasione, pure alla Casa Bianca. Trend che era un po’ scemato negli ultimi anni, o almeno aveva un’aria meno esplosiva, tanto che se la mettevano pure leader occidentali. Addirittura Benedetto XVI se l’era messa sulle spalle in occasione della sua visita in Terra Santa dopo che due boy scout gliel’avevano regalata (quella bianca e rossa, che più s’intonava ai suoi mocassini di pelle made in Novara). Ma ora, dopo il 7 ottobre e la risposta dell’Idf su Gaza la kefiah è di nuovo in auge. Se l’è messa pure Greta Thunberg (ma questo non conta come appropriazione culturale?). Il conflitto mediorientale ha oscurato pure i poveri bombardati ucraini, almeno nelle proteste da campus, forse anche perché manca un accessorio distintivo della lotta antiputiniana – le magliette con Saint Javelin, la santa col bazooka anticarro, non sono altrettanto adattabili ai vari look. Alle manifestazioni antisioniste hanno pure fatto la figurina con Anne Frank con la kefiah addosso (i laziali antisemiti la facevano con la maglia della Roma). A Milano, tra le vie del centro, dove le vecchie botteghe dei calzolai per sopravvivere devono anche fare da deposito bagagli per i turisti, è spuntata una vetrina all-kefiah. Oltre le classiche nera e rossa, sempre a sfondo bianco, ci sono scialli mediorientali di mille combinazioni di colore. Non è un temporary shop, le vendono da anni, fatte da rifugiate in un campo profughi in Giordania (che firmano anche l’etichetta col loro nome in arabo). Ma, ci dice la commessa, “in questo periodo ne vendiamo un sacco”. Ci sono di ogni colore, di ogni combinazione cromatica, sia in poliestere che in cotone con ricami sofisticati, tutte le sfumature adatte a ogni stagione armocromatica. Prodotti di qualità, dai 40 agli oltre 100 euro. Ma se continua così è un attimo che H&M e Zara inizino a rispondere alla domanda crescente, come aveva già provato a fare Urban Outfitters qualche anno fa con la sua sciarpa per la pace.
Già da qualche anno i produttori mediorientali si lamentano che gli sweatshop cinesi distruggono l’artigianato locale. Più che “Queer for Palestine”, “fast fashion for Palestine”. Tra poco le kefieh anche negli store delle Ivy League insieme alle tazze di Harvard e chissà che non vedremo il pattern da Olp nelle sfilate alla prossima fashion week. Kefiah griffata, col logo LV o D&G (in realtà Louis Vuitton l’aveva già fatto, vendendola a 700 dollari e beccandosi un po’ di critiche, e pure Balenciaga in una versione con i pendenti). Nell’èra della brandizzazione selvaggia, politica e moda sono difficilissime da separare. E ci si chiede se da Tiger e compagnia ci sarà un grande revival di oggetti a forma di anguria – simbolo dell’estate ma anche della solidarietà alla causa palestinese. Ma non basta, autrici femministe postano su Instagram dei reel mostrando outfit ispirati alla contestazione, con sundresses, occhiali da Lolita kubrickiana e orecchini-penna a sfera per scrivere su un post it “Free Palestine” con un cuoricino. Sicuramente Yahya Sinwar apprezzerebbe. La protesta nell’epoca della sua riproducibilità social.