Terrazzo

Nelle Marche grazie al Pnrr rinasce Villa La Quiete

Manuel Orazi

L'abitazione neopalladiana progettata dall'architetto Valadier ora diventerà uno spazio di co-housing: ad abitarci andranno quelle persone che hanno perso la propria casa a causa del sisma del 2016

Capita che una villa neopalladiana progettata dall’architetto romano Giuseppe Valadier subito dopo il ristabilimento dell’ancien régime nel 1815 diventi una forma alternativa di social housing. Nelle Marche, non lontano da Tolentino dove si consumò l’ultima battaglia delle truppe napoleoniche guidate da Gioacchino Murat, il comune di Treia è infatti riuscito a restaurare la casa del custode di Villa La Quiete trasformandola in alloggi per chi aveva perso l’abitazione con il sisma del 2016. Si tratta di un primo atto del progetto più ampio e ambizioso di recupero della villa e di tutto il relativo parco finanziato con i fondi del Pnrr, un piccolo capolavoro del sindaco uscente Franco Capponi. La villa infatti ha avuto anni di fasti e lunghi periodi di abbandono in cui è stata anche saccheggiata. Valadier ha lavorato molto sia a Treia (casino di caccia Folchi Vici, Accademia Georgica) sia nei comuni vicini (Palazzo Conti-Ugolini di Macerata, Chiesa dei Santi Pietro Paolo e Donato a Corridonia, Collegiata a Monte San Pietrangeli) anche se è più noto per i grandi progetti romani come la sistemazione di Piazza del Popolo e l’orologio sulla facciata di San Pietro.
 

Il padre Luigi infatti era un orologiaio francese e perciò il figlio, già attivo come architetto e restauratore sotto Pio VI, fu precettato dai giacobini quando occuparono Roma e subito perdonato al ritorno di Pio VII bisognoso di tecnici esperti per rimettere in piedi lo Stato pontificio. Per questa sua ambiguità politica, Valadier è stato detestato da Bruno Zevi e poco studiato alla pari di Marcello Piacentini che come lui ha attraversato tre regimi diversi (monarchia, fascismo, repubblica) senza attirare un’adeguata attenzione storiografica. La villa, più neopalladiana che neoclassica, è comunque stupenda, nota anche come Villa Spada perché l’inquilino più illustre fu Lavinio de’ Medici Spada, nobile romano appassionato di poesia, geologia e botanica che insieme alla moglie polacca amica di Chopin, Natalia de Komar, ne arricchì il parco al motto di “L’obliar mi giova beata solitudo, lascia dir le genti sola beatitudo”. Dopo di lui e altri abbandoni, dal 1943 divenne campo di internamento per una cinquantina di africani fatti venire in Italia dalle colonie per la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare del 1940, interrotta dalla guerra.
 

Questo strano gruppo dopo l’8 settembre si unì alla Brigata Mario della vicina San Severino Marche, una brigata multietnica costituita da fuggiaschi, disertori e ribelli di dodici nazioni e tre religioni diverse: c’erano etiopi, eritrei, libanesi, somali, marocchini, russi, slavi, scozzesi, boemi e un ebreo inglese, ex prigionieri alleati raccontati nel libro di Matteo Petracci “Partigiani d’oltremare” (Pacini Editore). Con il restauro dell’edificio neogotico del custode ora sarà più semplice visitare e finalmente riusare a uso pubblico almeno il parco di circa tre ettari che è dotato anche di un belvedere verso la vallata del fiume Potenza e dunque verso il mare Adriatico.

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