Terrazzo

Elon Musk non abita più qui: la California di Kamala Harris e i suoi nemici

Michele Masneri

E spunta pure un cognato che lavora a Uber: a Roma ha incontrato Urso e i vertici della Regione Calabria 

Il grande architetto Frank Lloyd Wright sosteneva che tutto ciò che è male ancorato prima o poi in America scivola verso la California. E puntualmente  la California si pone come grande fucina di futuro oppure spauracchio di paure ataviche: di sicuro, mai luogo marginale. E così anche nel 2025 avremo presidente d’America la democratica Kamala Harris oppure un vicepresidente repubblicano come J.D. Vance col suo seguito di ricconi tecnologici.

Entrambi sono nati o sbocciati nel “Golden State” ma rappresentano due facce molto diverse di quello che è un luogo unico. La California è infatti la quinta economia mondiale, con 40 milioni di abitanti, un pil di 3,9 trilioni di dollari (circa il doppio dell’Italia), una crescita annua del 6 per cento, una popolazione in aumento (più 67 mila abitanti nel 2023). Sia Harris che Vance poi vengono da una parte specifica della California, la Bay Area cioè quella zona che comprende San Francisco e la Silicon Valley. 

E qui tante differenze, politiche e antropologiche: intanto Harris nella Bay Area è nata, al contrario dei titani tecnologici che qui sono arrivati per fare l’università di Stanford e poi abbandonarla come prescrive il guru Peter Thiel (repubblicano, fondatore di PayPal, già consigliere di Trump, da anni ha lanciato un premio di 100 mila dollari proprio per chi “drops out” cioè abbandona gli studi e decide di lanciarsi nel business). 

Harris invece come si sa è figlia di migranti indiani che si sono incontrati all’università di Berkeley, culla della rivolta giovanile e dei figli dei fiori. A Berkeley Harris è cresciuta, in passeggino alle manifestazioni, poi figlia di “single mom” quando i suoi divorziarono e lei aveva solo 7 anni; e Berkeley ancor oggi rappresenta l’ateneo più prestigioso e progressista della Costa Ovest, ma anche un avamposto di librerie, di natura incontaminata, di cibo biologico. Le casupole in legno dei professori hanno i posti riservati con la “N” davanti, cioè per i numerosi premi Nobel che vi abitano. Qui è nato anche “Chez Panisse”, il ristorante bio di Alice Waters, amica e chef degli Obama che convinse la coppia presidenziale ad allestire il famoso orto della Casa Bianca, e Waters, paladina del cibo sano, amica del Dalai Lama e vicepresidente dello Slow Food di Carlin Petrini è un’alleata di lunga data di Harris e fa parte di un gruppo molto radical chic californiano che va dalla famiglia Coppola che possiede oltre al business del cinema anche ristoranti, cantine e vigneti, ai Brown, dinastia politica cittadina, ai Newsom, a Nancy Pelosi. A 29 anni Harris dopo la laurea in legge ebbe una relazione con il sessantenne Willie Brown, il politico nero più importante della sua generazione, due volte sindaco di San Francisco, presidente del parlamento della California, pioniere dei diritti dei neri e dei gay, e anche mentore di uno degli altri candidati papabili alla Casa Bianca oggi, l’attuale governatore di California Gavin Newsom. 

I destini di Harris e Newsom spesso si sono  incrociati: infatti lei diventa procuratrice nel 2003, lo stesso anno in cui lui è eletto sindaco di San Francisco. Qualcuno sostiene che tutto questo stare in mezzo ai ricchi e potenti di “Nob Hill”, il quartiere buono di San Francisco detto “Snob Hill” derivi a Harris dagli antenati bramini (il nonno era infatti un diplomatico e politico in India). Ma lei è molto di più.  

E’ nata a Oakland, cittadina affacciata sulla baia e confinante con Berkeley.  Un tempo ghetto pericoloso e oscuro, e oggi invece meta in via di gentrificazione per chi non si può permettere gli affitti di San Francisco. Sede del secondo aeroporto della città, quello dei low cost, negli anni ‘60 ha avuto perfino un sindaco delle Pantere Nere. “In quei posti è come stare all’inferno”, disse Trump evocando vecchi fantasmi di quando Oakland era sinonimo di Marilyn Manson e droghe, e non come oggi epicentro di ristorantini organici e atelier d’artista.

C’è tutto in Harris della Bay Area, si diceva: la nascita cosmopolita coi genitori cervelloni (Shyamala Gopalan, studentessa di endocrinologia indiana, avrebbe dovuto tornare in patria per sposarsi in un matrimonio combinato, ma a Berkeley nel movimento studentesco incontrò Donald Harris, giovane economista dalla Giamaica). C’è il suo essere nera ma non afroamericana (la comunità asiatica è molto più numerosa di quella nera a San Francisco). C’è la passione per i diritti civili; e anche il mistone pubblico-privato, che è il segreto della Bay Area con la sua commistione tra startup e università. Mistone ben rappresentato dal cognato Tony West, avvocato nero marito della sorella (e figura guida) Maya. West è il Lollobrigida d’America. E’ stato prima numero tre del Dipartimento della Giustizia, voluto da Obama, e adesso è capo dell’ufficio legale di Uber (per la serie c’è un po’ di Calabria in Silicon Valley: West qualche mese fa a Roma ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico Adolfo Urso e anche il presidente della regione Calabria Roberto Occhiuto, che per primo ha aperto all’operatore dei trasporti californiano, e l’ha invitato a visitare la sua bella terra.  Chissà se il First Cognato d’America ce la farà contro i tassisti italiani).

Altre vecchie conoscenze degli Harris sono Sheryl Sandberg, capa operativa di Facebook, e poi Marc Benioff, proprietario del colosso informatico Salesforce (che ha costruito il più alto grattacielo di San Francisco e rilevato o per meglio dire salvato il magazine “Time”). E ancora Lauren Powell Jobs, vedova del fondatore della Apple (e salvatrice di “The Atlantic"; salvare i giornali è un altro hobby dei ricchi progressisti sanfranciscani).  Con i ricchi tecnologici il mondo harrisiano incrocia “l’altra” Bay Area  dei nuovi potenti arrabbiati, i Peter Thiel, gli Elon Musk che oggi stanno compattamente dalla parte di Trump. O anche come J.D. Vance, il vicepresidente che Trump vorrebbe alla Casa Bianca. Sono tutti siliconvallici pentiti, nel senso che sono arrivati, hanno fatto fortuna, ma poi qualcosa li ha innervositi. La Bay Area li ha visti prima sbocciare, poi sbroccare.

San Francisco scatena del resto i fantasmi più oscuri nei repubblicani, forse perché a differenza degli americani basici lì sono tutti belli, sportivi e fricchettoni. Un’antica legge comunale permette di girare nudi per la strada (e non è una formalità: la settimana scorsa due signori completamente biotti hanno sventato una rapina, ottenendo articoli di giornale e elogi pubblici).  Fiere come la Folsom Fair sono gioiose sagre del sesso in pieno giorno  (in confronto i nostri Pride sono processioni di paese). Nel 2019, quando il presidente Mattarella andò in visita di Stato a San Francisco, il Governatore Newsom lo ricevette non in un palazzo pubblico ma in una foresta di sequoie, in smanicato (mandando nel panico il cerimoniale del Quirinale). Da questa California post hippy sono cresciute due culture: una che abbraccia questo retaggio, e si identifica nel Partito democratico, e ha coniugato il “famolo strano” con gli algoritmi e il kale, l’onnipresente cavolo nero; l’altra che rifiuta tutto in blocco e agogna ordine e disciplina.

Tra questi ultimi c’è Thiel, che è nato a Francoforte e si è trasferito a Stanford,  per studiare col filosofo francese René Girard. Thiel, pur essendo gay e abbastanza fricchettone lui stesso, si è stufato della Bay Area, in generale delle molte tasse che si pagano qui e anche di qualche rigidità burocratica. Tutti questi guru del resto sognano un mondo senza regole, come dettato dalla loro ideologa, la romanziera Ayn Rand. Meglio dunque il più rustico Texas, dove martedì scorso Elon Musk ha annunciato che sposterà X (la vecchia Twitter) e Space X, la sua impresa spaziale, per via di una nuova legge californiana che autorizza gli studenti che vogliono cambiare sesso a farlo senza informare i genitori. Una provocazione per Musk, il cui appoggio a Trump deriva almeno in parte proprio dalla vicenda del figlio che a 16 anni ha deciso di diventare donna (e comunista!), senza che la scuola informasse la famiglia. J.D. Vance, invece, non ha intenzione di cambiare sesso, nonostante gli occhi bistrati, ma dopo avercela fatta come venture capitalist nella Bay Area ha deciso di tornare nella sua “America profonda” diventando prima odiatore poi paladino di Trump.  

Lontano dalla California dei super diritti, delle super tasse, del super biologico, che è in fondo un super manifesto di tutto quello detestato dai repubblicani ma anche alle destre mondiali. La stessa città di San Francisco negli anni è diventata il simbolo di tutto ciò che non funziona in America, in seguito a una serie di fake news messe in giro dai media trumpiani e poi assimilati dal mondo intero, anche se tutti i dati dicono il contrario. La città è al 14esimo posto per numero di reati violenti, dopo Dallas, Seattle, New York e Phoenix. Il tasso di omicidi si è dimezzato dagli anni Duemila. Secondo Forbes, le città più pericolose d’America sono New Orleans, Detroit, St. Louis e Memphis: non San Francisco. Che però per molti rimane una Sodoma e Gomorra, una “failed city”, città dei drogati, dei senzatetto (ma ce ne sono meno che a New York o Miami), città fallita appunto. Anche se ora già è nuovamente fucina del futuro con tutto il settore dell’intelligenza artificiale che qui sta inaugurando una nuova rivoluzione. Ma perché rovinare una bella storia con la verità (come diceva un altro immigrato siliconvallico di successo, un tale  Mark Twain). 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).