Marco Sammicheli - foto LaPresse

Terrazzo

I Campana vanno in Cina ed esportano il tropicalismo del design

Giulio Silvano

Una mostra sui designer italobrasiliani a Shanghai. "Il popolo cinese è colto e curioso. È attratto dallo spudorato uso del colore, dall’inaspettato riuso di certi materiali, dalla coscienza sociale", ha detto il curatore Marco Sammicheli 

Una sedia fatta di animali di peluche, o la Vermelha armchair, ora esposta al Moma, poltrona fatta di 500 metri di corda, o la sedia Favela che starebbe benissimo nello studio di Ballarò, o il divano Boa che si vedeva anche nella villa berlusconiana in “Loro”. Lo specchio frankenstein Miraggio, le sedie Queebo scopiazzate nei peggiori bar fighetti dove servono gli Hugo con la cannuccia di metallo. Il mobile Rafa, armadio che si apre spostando i fili di rafia di viscosa, un armadio cugino-It della famiglia Addams, una capanna da sciamano jungle-chic, e il bar sotto l’orologio dell’Orsay, con i neobarocchismi onirici ispirati al mondo acquatico un po’ art nouveau di Emile Gallé (insalatone e stufati prima di passeggiare tra i Manet). Mattissimi i fratelli Campana, brasiliani di origini italiane, che hanno tropicalizzato il postmodernismo del design, giocando anche in anticipo con quell’ecologismo che ora è un must. Dagli anni ‘90 clienti come Artemide e Louis Vuitton, Venini e Vibram. Humberto aveva iniziato come avvocato, e il fratello Fernando, architetto, è morto nel 2022.

I quarant’anni del duo-studio-bottega di famiglia vengono festeggiati in Cina, in una mostra “Impermanence” co-curata da Marco Sammicheli, direttore del Museo del Design Italiano alla Triennale. “In Asia non erano mai state organizzate mostre sui Campana e la direttrice Gong Yan ha pensato di rompere un silenzio, raccontarndoli  al pubblico cinese e cosmopolita di Shanghai”, dice al Foglio Sammicheli, che ha lavorato alla “vasta retrospettiva con due installazioni site specific (un giardino sul tetto del museo e un’installazione luminosa alta 25 metri nella hall sopraelevata degli spazi espositivi)”. Ecologisti prima che fosse un obbligo. “Un originale quanto inconsapevole atteggiamento sostenibile”, dice il curatore. “Volevano restituire valore allo scarto attraverso un processo di risignificazione delle merci e dei contesti. La favela, i materiali da ferramenta, i giocattoli dei mercatini, gli scarti delle lavorazioni industriali potevano diventare nuovi oggetti per la casa grazie a un progetto, al saper fare delle mani di artigiani e operai specializzati. Bastava reintrodurre questi materiali in un virtuoso meccanismo produttivo”.

La Cina è pronta al tropicalismo dei Campana? chiediamo a Sammicheli. “Il popolo cinese è colto e curioso. È attratto dallo spudorato uso del colore, dall’inaspettato riuso di certi materiali, dalla coscienza sociale, spesso disobbediente – perché riflette sulle ingiustizie sociali e sulla libertà della cultura vernacolare – che i Campana esprimono da quattro decenni. Quel tropicalismo che tanto affascina noi europei come fuga esotica al logorio dello standard non credo sia la principale attrazione per il pubblico locale. Credo diventi più un contenuto che scoprono una volta in mostra. Ciò che attrae i visitatori rimane l’euforia delle forme, la spontaneità di una poetica che si è fatta canone mutuando dalla strada e dal negletto un potere consolatorio, animistico, un’idea di nuovo che parte dal dimenticato e dal povero. La mostra è un’avventura alla scoperta di un’estetica, un viaggio lisergico dentro una caverna platonica tra peluche, stoffe dorate, vetri rotti, plastiche, squame di pesci, pelli conciate e stalagmiti di polistirolo”. 

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