Terrazzo

Travolti da un'insolita luce saudita

Giacomo Giossi

L'Arabia Saudita, documentata in "Saudiscapes" di Giovanna Silva ed Emilia Giorgi, emerge come luogo di accelerazione continua e mutamento inapparente in un contesto di trasformazione perpetua e affascinante

Esistono luoghi la cui evocazione produce immagini assenti, luoghi astratti dominati più da impressioni che da sviluppi reali di pensiero e di sguardo. Che l’Arabia Saudita esista non è una certezza così ovvia, perché l’esistere saudita sta tutto in un movimento inapparente: una vera e propria accelerazione continua e non sempre legata ai ritmi della storia. Gli stessi flussi economici assumono un movimento inedito, una qualifica che va ben al di là degli abituali discorsi attorno alla salute dei mercati. Un atteggiamento pre politico che ha dentro di sé un’essenza biologica invisibile eppure potentissima e non è un caso che l’inedita riapertura dei confini sauditi al mondo preceda di un solo anno la chiusura del mondo per pandemia: ovvero quella che fu una tempesta di sabbia che lasciò il mondo allibito e terrorizzato. Mentre noi cantavamo ai balconi intanto l’Arabia Saudita esisteva e mutava senza freno alcuno. Questo movimento a tratti mistico viene documentato in un volume fotografico, “Saudiscapes” (Nero Editions) di Giovanna Silva ed Emilia Giorgi con la cura dello studio d’architettura Schiattarella Associati che da dieci anni circa opera nel paese.
 

Due le città messe a confronto, Riyadh e Jeddah, due varianze di un unico movimento dentro al quale lavora la distinzione e l’originalità di un tempo passato proprio e irriducibile, ma anch’esso in perenne movimento. Un tempo friabile e continuamente in irrefrenabile elaborazione. Le fotografie di Giovanna Silva offrono forme definite in un campo largo volubile: oggetti catapultati da una potenziale tempesta. Luoghi di altri mondi che hanno raggiunto l’origine di una luce a tratti accecante. Lo sguardo di Giovanna Silva cala dall’alto nella sequenza delle immagini fino a raggiungere il bordo strada offrendo variazioni di bianco segnato da punti distintivi. Un colore mentale capace di mostrare il movimento del tempo solo fermandolo, solo mettendolo a fuoco. Giovanna Silva sembra tradurre in “realtà” il linguaggio del bianco di Shusaku  Arakawa. Non esiste un tempo passato, ma un diverso sgretolare dei bordi. Le fotografie non si definiscono nell’immagine offerta, ma nella possibilità di una smarginatura obbligata da una violenza fredda che è il cambiamento radicale a cui sono sottoposti questi due centri urbani. Silva invita a guardare al di là dello scatto, cogliendo quello che manca e lasciando intatto quello che esiste. Silva fotografa una possibilità di stare nel mentre di un’assenza del vivente.
 

Un gioco che offre il fianco anche a un divertita confusione, dentro alla quale è possibile ritrovare riferimenti assurdi come una provincia padana bruciacchiata e arsa o il nostro nordest così innamorato di viadotti e rotonde. Emilia Giorgi, nel testo introduttivo al volume contestualizza efficacemente quel balzo che da un’affollata fontana di Trevi pre pandemia la immerge in un’Arabia Saudita il cui spazio infinito sembra condannare a un’impossibilità di presente assoluto. Il libro trattiene il lettore in un tempo sconosciuto prima ancora che in un luogo lontano. Persi dentro allo sguardo di Giovanna Silva e nel suo nomadismo che anticipa il futuro, i nostri desideri assumono la forma opaca di un cuore polveroso.

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