Terrazzo

Androgino d'oro, l'ossessione italiana per l'intersex

Michele Masneri

Italia in transizione. La polemica olimpica Angela Carini vs Imane Khelif, ma anche passioni e pulsioni che vengono da lontano. Da Susanna Tamaro a Meloni passando per Lino Banfi

Diciamoci la verità, i bot russi sono cattivi, e però noi eravamo scemi pure prima. È agosto e fa caldo ed è pieno di gente che sta male (cit). L’unico provvedimento utile a riformare il Cio, più che nuovi paletti su ormoni e dintorni, sarebbe di fare le Olimpiadi d’inverno, in settimane lavorative. Il caso della trans che non lo era ci ha colto nel fragile istante in cui si legge l’ultimo articolo sull’overtourism in spiagge generalmente vuote (ma non sarà invece l’estate dell’undertourism, in cui abbiamo finito i soldi?); in cui perfino i balneari sono talmente sfiancati da aver indetto uno sciopero. Ma Imane Khelif, la trans che non lo era, impatta, come dicono a Milano, anche su manie e ossessioni antiche. I giornali “d’area” cioè soprattutto gli Angelucci papers, spiegavano, al giorno 1, che la trans cattiva africana veniva a picchiare le nostre donne (rubandoci così il lavoro), e il giorno 2 ella diventava “intersex” (ma per l’Ansa pure “iper sex”, forse confondendola con “Supersex”, la serie di Rocco Siffredi su Netflix). Dal giorno 3 e seguenti, liberi tutti, ella tornava trans o comunque cattiva. Ora le si è aggiunta pure la collega taiwanese. Il vero problema, diciamolo, di queste due disgraziate, non è che sono intersex, è che sono brutte. Donne brutte.

  

Nessuno metterebbe infatti in dubbio la mascolinità o femminilità di donne, atlete o non atlete, mascoline ma di bell’aspetto. Amanda Lear ancora ci campa sul mistero. E figurine come Inès de La Fressange non meno mascoline della pòra Khelif hanno avuto ottimi riconoscimenti dalla vita e dal lavoro. La mascolinità, nella donna, è da condannare solo se la donna è esteticamente svantaggiata.

 

Lasciamo poi proprio perdere il caso dell’uomo, che è l’opposto: se l’atleta ha muscoli d’acciaio, gambe da leone, e altre metafore, questo che è un vantaggio appare un gran vantaggio, ne farà un superuomo, non una minidonna. Phelps, Tyson, altri evidentemente geneticamente avvantaggiati si sono sempre goduti il loro essere differenti (al massimo, divinizzati: Maradona mica dicevano che era trans: semmai, divino, la Mano di Dio, appunto). La donna invece no, e se poi è brutta è finita. Nessuno le darà il suo Androgino d’oro.

  

Diventa subito uomo. Generando confusioni poi in un paese molto ossessionato, è evidente, da ciò che nelle mutande è contenuto, e da ciò che sembra una cosa ma poi si rivela un’altra. C’è tutta una filmografia, naturalmente: 60 anni fa “La donna scimmia” di Ferreri sembrava anticipare i meme d’oggi con Kamala Harris appollaiata sull’albero, ma già visti con Michelle Obama e con la ministra Kyenge, insomma hashtag #orango (e non c’erano ancora i bot russi). Che fantasmi che evoca, la donna-uomo africana. Se Montanelli laggiù in Abissinia invece che la sposa bambina avesse impalmato una colossale intersex con anello al naso, avrebbe avuto lo stesso successo?

 

E se al contrario la pòra Khelif fosse bianca e di Busto Arsizio, sarebbe stata forse trattata più urbanamente? Se bianca, e piacente, la trans o intersex infatti si integra. Come Nicole Kidman, o come la moglie di Alberto Sordi nell’episodio di “I nostri mariti” (1966) in cui nel classico tratteggio di commedia grana grossa il medio borghese Sordi si innamora di una bella signora mascolina che poi si rivela essere uomo a tutti gli effetti (ma il borghese Sordi si adatta alla moglie-uomo che, stufa di fare la casalinga, si mette a fare il rappresentante di vini e lo cazzia se lui non cucina e rassetta per bene, e infine parte militare). E come dimenticare “La moglie in vacanza… l’amante in città” (1980), dove Lino Banfi trova lavoro come maggiordomo da Barbara Bouchet fingendosi gay, e per essere convincente sostiene: “A me hanno rovinato i mormoni”. E alla signora, preoccupata della setta: “Io ho il 98 per cento di mormoni femminili!”. Ma al giorno 5, ecco Susanna Tamaro, trans riluttante per sua ammissione matura, che annuncia al Corriere in pieno sdegno olimpionico sull’ultima cena (arrivando ultima, persino dopo il Papa): “Un giorno mi sveglierò convinta di essere un pastore tedesco – ho sempre sognato di essere Rin Tin Tin – e pretenderò che questo venga trascritto sui documenti” (ma a Roma ci vuole comunque più tempo per avere una carta d’identità normale che per cambiare sesso o anche razza animale).

   

In un paese che, secondo YouPorn, ha il più alto tasso di ricerche su film a tema trans, è chiaro che l’argomento viene da lontano. Facile liquidarlo con “i drag queen” (al maschile) cattivi di Silvana De Mari, la J. K. Rowling che possiamo permetterci. In un paese che ha santificato il femminiello (ma come estetica generale, tra calciatori e tatuaggi e borselli sembrerebbe sempre più intersex), Giorgia Meloni, campionessa olimpica di ambiguità, lo sa, e pattina su questo territorio con la consueta disinvoltura. Lungi dall’essere “colta in fallo”, come qualcuno si augura, nelle sue contraddizioni, la sua ambiguità la tiene invece in vita, la collega alla pancia e al basso ventre misterico del paese anzi Nazione certamente più complesso delle semplici “radici cristiane” che tanti pretendono. Bisogna tornare almeno al mito di Ermafrodito (secondo la leggenda, figlio di Ermes e di Afrodite, cresciuto nella regione di Ankara, se lo sa Erdogan).

   

E così Meloni ha buon gioco nell’arrivare assertiva dalla Cina in versione “il presidente”, trasformarsi sulla scaletta dell’aereo in dolce mammina con la piccola Ginevra (“la mia topolina”) e poi tornare premier per dare la carezza alla misteriosissima pugilessa Carini. E lì tutti: “Andate a casa, questa è la carezza del presidente”? No, è carezza di mamma. Si è nuovamente trasformata, caratteristica delle divinità greche (altro che radici cristiane). Ma il presidentemamma potrà competere ad armi pari con gli altri politici normali, con quei cromosomi? Qui è chiaro che si torna a questioni ancestrali, almeno a Papa Giovanni Paolo I che in un’estate di quasi 50 anni fa pronunciò quella frase sibillina, “Dio è papà; più ancora è madre” che non gli portò molta fortuna (morì due settimane dopo). Ma se Berlusconi dichiarava “Io sono una lesbica”, Meloni è il primo politico intersex d’Italia? Staremo a vedere cosa ne sarà di Carini (prenderà i soldi dell’Iba, o Iban?). Ci saranno sviluppi anche televisivi? La tigre di Afragola, malmenata dall’Africa, figlia e sorella di pugili, se non diventa questa una fiction bisogna davvero tagliare i fondi ministeriali al cinema italiano. O diventerà la Beatrice Venezi della boxe?

 

È chiaro che la posizione del presidentemamma non esaurisce la questione, comunque. Una volta scoperchiato il vaso, ognuno qui poi dice la sua. A partire dalle donne di casa. Ecco dunque Rachele Mussolini a sostenere che l’algerina è donna come tutte le altre, e più ancora Alessandra, secondo cui “una vera donna non fugge”. Qui si entra in un territorio veramente complicato: ci si ricorda l’Arbasino che citando i moschettieri del Duce ricordava come nel fascismo l’orribile sodomia oggi vituperata fosse misteriosamente liberalizzata e incentivata ai più alti livelli (“prendilo da vero uomo”), e l’Aldo Busi del romanzo “Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel c**o”.

 

A proposito del rapporto tra questioni di genere e politica, una piccola notazione etnografica a chilometro zero per finire. A noi amici bresciani, la compianta mamma del Sommo Busi riportava anni fa: “Oggi ha telefonato a casa una certa Martina Zoli. Che simpatica, ma che us da òmm che la gà, che voce da uomo che ha” (era Mino Martinazzoli, altro bresciano indimenticato, gentiluomo democristiano, definito all’epoca “un politico di transizione”, ma non in quel senso. Non era ancora arrivato il gender, del resto: le temperature erano pure più basse, e i bot – italiani – erano sinonimo soprattutto di ottimi e sicuri rendimenti).

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).