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Terrazzo

Nessuno tocchi Mazzini: idea, trasformiamo il palazzo della Rai in museo

Michele Masneri

Durerà tre anni il restauro del palazzo della Rai a Roma. Intanto, i dipendenti verranno spostati in tre sedi. Timori, nostalgie, ricordi

Non ci sono solo le solite defatiganti questioni nomine, i tg con gli ascolti in calo, la presidente Soldi che se n’è andata e tutto il consueto strepito su “TeleMeloni”: il problema Rai si vede anche e soprattutto nel real estate. Come si sa, infatti, il palazzone di viale Mazzini, quello col leggendario cavallo rampante davanti, dovrà essere sottoposto a radicale ristrutturazione causa amianto. Un progetto affidato al prestigioso studio milanese di Antonio Citterio, e che dovrebbe partire l'anno prossimo per concludersi nel 2028 (ma si sa che i cantieri non sono mai puntuali), Nel frattempo, che succederà?

 

Grande è il terrore sotto il cavallo rampante, e nell’assolato quartiere Prati-Delle Vittorie-Mazzini, che i piemontesi costruirono notoriamente quasi senza chiese, senza pensare che anni dopo in Roma Capitale sarebbe sorto quel tempio multireligioso: uno democristiano, uno comunista, un socialista, uno bravo, era la liturgia d’un tempo. Ora, telemelones para todos? L’implosione della Rai questa volta è fisica, visibile, plastica, direbbe un architetto, Citterio o no. Il palazzone Rai praticamente andrà svuotato e ri-riempito. Nel frattempo le maestranze andranno sparse per quel tavoliere disarticolato che è Roma. Si sa, come scrive  il Messaggero, che i dirigenti andranno in un grattacielo ex Wind sulla via Cristoforo Colombo, lo stradone che secondo Lui doveva portare alla Terza Roma, al mare. Dunque la Rai si sposta a Roma Sud, e i più complottisti subito penseranno: teleGarbatella (anche se Prati-Delle Vittorie-Mazzini rimane un mistero urbanistico: perfino i più esperti non la sanno collocare sull’asse fatale Roma Nord-Sud).

 

Il bianco palazzone Wind, passandoci una sera d’agosto è lì, vagamente post-modern, alfiere di una specie di Villette o Défense, insomma cittadella dei servizi alla parigina ma che non ha mai attecchito a Roma. Vicine sono le torri del gruppo Gedi, altra delocalizzazione che non portò molto bene, quando Repubblica fu deportata dal centro storico; le torri nel tempo si sono ridotte, prima erano due, poi una, poi ora in pratica ai giornalisti è rimasto solo un basement. Tipo l’ufficio Rai del dirigente messo in scena in “La terrazza” di Scola, che si riduceva e ampliava a seconda della fortuna politica del suddetto. Trovata peraltro per niente fantasiosa, anzi realistica, perché anche nella forma dell’ufficio si misurava e si misura il potere, unità di misura e moneta del mondo Rai. Carriere intere si sono consumate per arrivare magari non al settimo piano ma al sesto (e salendo, fantozziani upgrade: moquette, tappeto, finto legno, legno, ficus, doppio ficus...). Siccome il potere poi comporta angoscia, rete anti-suicidi all’ottavo.

 

Un paio d’anni fa ci fu il caso di  un esimio dirigente che pur scoccata l’ora della pensione non accettò di mollare l’ufficio, e si asserragliò letteralmente. Non servirono le telefonate delle più alte magistrature democratiche del Paese. Quella stanza, con segretaria e pianta, era la sua vita.  Alla fine fu trovato un escamotage: un magazzino delle scope venne prontamente riattato, allo stesso piano, quello dei dirigenti, e una provvida targa d’ottone venne cesellata, e solo allora il neo pensionato “in denial” accettò di trasferirsi. Che ne sarà dunque di quelli spediti dall’altro capo della capitale? Come vivranno lo spostamento? Il dramma è ancora peggiore perché essendo l’edificio dell’Eur non gigante, si attuerà una specie di roulette russa, cioè gli 800 dipendenti lì dislocati usufruiranno  a rotazione delle sole 70 stanze disponibili: si dovranno prenotare tipo co-working di giorno in giorno la loro postazione, ha scritto in uno spassoso articolo Mario Ajello. Il resto nuoterà  in quel moderno acquario dei dipendenti che è l’open space, con la solita conseguenza degli uffici del genere, tipo Mondadori a Segrate o la sede del Sole24Ore by Renzo Piano, dove i più importanti meeting si tenevano alle toilette.

 

E dove avverranno i riti dell’alimentazione e del caffè?  Ne soffrirà anche tutto l’indotto gastronomico, i vari Vanni e sotto Vanni, caffè, pizzicherie, trattorie, ognuna con i suoi frequentatori. Che ne sarà del ristorante-mensa all’ottavo piano che celebrava quella bolla spaziotemporale che è la Rai con piatti sopravvissuti a tutte le temperie Masterchef, con ancora oggi nella carta le pennette alla vodka? Le colazioni di lavoro si sposteranno da Eataly, vicina al palazzone Wind? O si tornerà ai fasti del boom, andando a pranzo al mare? Tornerà l'aereo sul Roma-Milano con la vicina Fiumicino? Ci saranno ripercussioni anche sulla viabilità? La linea della speranza, la metropolitana A, infatti, portava da piazza Vittorio Emanuele al quartiere Prati scrittori e sceneggiatori illusi di qualche lavoretto ben pagato. Adesso dovranno cambiare metropolitana? E tutte le case di produzione cine e tele con i loro uffici sempre  e solo al piano rialzato (altro mistero urbanistico). Anche lì per evitare i suicidi? 


Alle più alte nomenclature invece (Ad, direttori naturali, ecc.) sarà risparmiata la deportazione all’Eur e troveranno rifugio nel palazzo della vicina Radio Rai a via Asiago; altri andranno nel centro “Raffaella Carrà” di via Teulada, già lambito dalle fiamme: ricorderete, la settimana scorsa, per l’incendio scatenato a Monte Mario, con sospensione di trasmissioni in diretta e dirette Instagram dalle fiamme di  Nunzia De Girolamo. 

 

Non era forse più intelligente forse pensare di spostare tutto il mammozzone Rai in un unico nuovo edificio, e magari trasformare il vecchio in un grande museo? Della tv, sì, ma anche del gusto italiano diciamo romano-statale, con i suoi doppi ascensori, uno per i potenti e uno per i no; col giardino zen giapponese (chissà chi mai l’avrà concepito). Con il plastico del palazzo medesimo, effetto "Porta a Porta". Con le statue di donne ignude all’ingresso. Lo stile ospedaliero-chic di Citterio salverà tutto questo? O faranno invece tutto bianco, con dei distributori di granola come negli uffici delle piattaforme californiane inclusive?  Cala già una straziante nostalgia, come per quei “pass” bianchi e blu che non funzionano mai e che solo gli usceri dalle mani fatate come croupier di Montecarlo sapevano maneggiare, accompagnandoli nei complicati pertugi. Scompariranno come gli ascensoristi degli hotel newyorchesi?  Verrebbe da dire: nessuno tocchi Mazzini, ma forse è troppo tardi, vabbè. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).