Terrazzo
Napoli come Londra e il potere della performance trumpiana: parla il sociologo Richard Sennett
Il senior advisor dell'Onu di Chicago trapiantato in Inghilterra paragona il turismo odierno a un teatro distruttivo popolato dal pubblico sempre più passivo di chi gira le città in cerca di cartoline, così come quello incollato a TikTok e alla capacità performativa del candidato repubblicano alla Casa Bianca
“Oggi non ci sono molti posti a Londra che assomigliano a questo” dice Richard Sennett al Foglio, guardandosi intorno nel giardino del bar della Fondazione Feltrinelli a Milano, sotto il palazzone vetrato di Herzog. “Londra in questi giorni assomiglia sempre di più a Napoli”. Sennett è in città per presentare il suo nuovo libro “La società del palcoscenico” (Feltrinelli), che parla dei poteri performativi nella società, ma soprattutto di come il teatro e altre pratiche possano riportare le persone a mescolarsi, a vivere gli spazi non come individui ma come comunità, unendo provenienze sociali e culturali diverse. E così si parla delle week, l’orgoglio di Beppe Sala. “Gli eventi devono unire tutti. Ero al London Piano Festival, dedicato a Gabriel Fauré. Andava bene giusto per le persone bianche over 50”. Il sociologo di Chicago trapiantato in Inghilterra, senior advisor delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici e le città, Visiting Professor of Urban Studies al MIT, si sente ancora e soprattutto un violoncellista, il mestiere che ha fatto per un po’ di anni, e si veste con la camicia nera da concert hall. “Il problema alla fine è questo: le città non sono pronte per il riscaldamento globale, né Napoli né Stoccolma”, dice. “Per via del calore la gente sarà costretta a lavorare di notte e dormire di giorno”.
Diventeremo tutti vampiri. E il turismo? “E’ come un teatro distruttivo con un pubblico passivo, fa evacuare le città. L’altro giorno una turista cinese mi ha raccolto un foglio che mi era caduto, abbiamo parlato e mi ha chiesto delle dritte. Le ho detto: vuoi vedere Londra o vuoi vedere le immagini di Londra? Non penso abbia seguito i miei consigli”. Sennett ci dice che il nostro problema è “che in Italia il 25 per cento del pil dipende dal turismo, è un problema strutturale col capitalismo da risolvere. Tutti i fenomeni culturali, appena scavi un pochino sotto la superficie, ti accorgi che sono strutturali”. Nel libro Donald Trump è citato spesso, e il sociologo ci assicura che vincerà a novembre. “La gente lo paragona a Berlusconi, ma: 1. Berlusconi non aveva la demenza e 2. non aveva il suo potere. La parte performativa interessante di Trump è che, anche con il cervello che si disintegra, restano modi non verbali di performance. E’ ancora un maestro del contatto visivo con la folla”.
Nel libro ci sono anche molte cose personali. Questo perché “mi avevano diagnosticato una malattia molto seria, pensavo sarebbe stato l’ultimo”, dice Sennett ridendo, e così è diventato anche un po’ memoir. Ma ora, a 81 anni, sta lavorando al prossimo che “sarà incentrato sulla narrativa, sul rapporto negli ultimi cento anni tra lo storytelling e l’economia politica. Sono da sempre un grande lettore di Walter Benjamin. E mi interessa TikTok perché le clip hanno una narrativa brevissima con un obiettivo preciso: dire tutto in tre minuti. Questo è esattamente ciò che la letteratura vuole evitare”. Benjamin avrebbe amato TikTok? “Probabilmente sì”. Ma i social, ci tiene a dire, “sono antisociali. Se hai 3.000 follower non hai un network, hai un display, è come un teatro”. Si torna sempre alla performance. “Sì, ma con un pubblico completamente anestetizzato. E poi, se tutti i tuoi follower ti scrivessero nello stesso momento, quanto ci metteresti a leggere i messaggi e a rispondere?”.