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Terrazzo

The Bear, stellato ma anche un po' bollito

Gaia Montanaro

La realtà contamina la finzione: sul piccolo schermo ecco una cucina che prende a modello i ristoranti più sofisticati: stile asciutto, travi a vista, design lineare, con un'illuminazione intima. Contrappasso in cucina, dove regna una caotica catena di montaggio

Every second counts. Ogni secondo conta. È questa la frase che – ormai da qualche tempo - è appesa alla parete della cucina di “The Bear”. Questo terzo capitolo della serie, globalmente un po’ fiacco tranne per qualche picco di puntata, sperimenta un linguaggio narrativo un po’ diverso dal precedente. E, da par nostro, porta in scena un nuovo ambiente – il ristorante The Bear, come lo ha pensato e desiderato chef Carmy (Jemery Allen White) – che guarda allo stile dei ristornati stellati. Se infatti è sicuramente centrale, per ottenere le agognate stelle, realizzare cibi sopraffini, è anche vero che l’estetica (intesa come quella dei piatti ma anche dell’ambiente circostante) ha il suo ruolo. Perché, come i piatti delle diverse portate, racconta una storia precisa, setta un mood.

Contribuisce insomma all’esperienza culinaria nella sua interezza. The Bear è quindi un ristorante dallo stile semplice e asciutto: travi a vista, pareti di mattoni bianchi e legno, tavoli dal design lineare fatti di compensato ed acero (materiali poveri). Ormai abbastanza di tendenza – soprattutto per lo stile Japandi – è la scelta di non utilizzare tovaglie ma di appoggiare direttamente i piatti da portata sui tavoli (anche se a volte spuntano tovaglie bianche, perfettamente stirate e con piega). I punti luce sono disposti agli angoli della sala – con solo qualche eccezione per le lampade tonde a sospensione - messi ad arte per non creare un’illuminazione diffusa ma più intima.

Ci sono piccoli vasi con fiori di stagione, candele bianche (senza esagerare), un pavimento grigio asfalto lucido per dare omogeneità. Gli unici elementi di discrasia visiva sono apparentemente i camerieri, con le mani tatuate e dalle divise troppo strette. Elemento di raccordo tra il vecchio locale di famiglia che serviva hot dog a ripetizione e i nuovi ambienti sofisticati, ricordano da dove si viene e dove si sta cercando di andare (“Ciò che cresce insieme, sta bene insieme” si dice in una battuta della serie). La sensazione di calma, purezza e pacificazione che si respira nel locale ha il suo contrappasso nella cucina. Qui non regna la caoticità ma un rigore formale ed estetico di natura diversa. I toni si fanno scuri – grigio e blu soprattutto – l’acciaio è il materiale predominante, sui cui svettano piatti bianchi e squadrati che accolgono pietanze colorate dall’equilibrio cromatico (e di gusto) perfetto. Tutto è strutturato come in una catena di montaggio, in equilibrio precario, asettico quanto basta per essere un luogo di nervosismo controllato (che però a tratti esplode, rompendo l’ordine formale dello spazio). Tra il ristorante e la cucina c’è una finestra che mette in comunicazione visiva i due spazi. Un diaframma tra due mondi, apparentemente di natura diversa ma che sono le due facce di cosa significhi, in fondo, essere uno chef. Forma e sostanza. La forma che è sostanza.
 

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