Foto di Paweł Mazu (da Wikimedia Commons)  

Terrazzo

I giorni italiani di Joseph Rykwert, il grande storico dell'architettura

Manuel Orazi

Il primo viaggio in Italia è nel 1949, dove gli incontri cruciali della sua vita lo spingeranno a diventare per sempre italofilo. Ha pubblicato una ventina di libri, spinto dagli eventi a scegliere il lusso di trasgredire e riscrivere il suo destino

La storia di ogni famiglia è un romanzo, massimamente quella degli ebrei orientali come dimostrano, fra i capolavori dal valore universale tradotti più di recente, “La famiglia Karnowski” (Adelphi) di Israel Singer e “Fedeltà e tradimento” (Giuntina) di Chaim Grade. Bisogna essere rispettosi custodi della Legge, del sapere che giunge a noi dal passato, o possiamo permetterci il lusso di trasgredire e riscrivere così il nostro destino? Joseph Rykwert, scomparso venerdì all’età di novantotto anni a Londra, è stato spinto dagli eventi a scegliere la seconda strada. La famiglia paterna era di Varsavia, mentre quella materna era lituana e credeva nella superiorità della cultura russa, così la sua infanzia borghese e poliglotta arrivò al fatale settembre del 1939 quando i Rykwert si salvarono in maniera del tutto fortuita. Il padre ingegnere che da tempo collaborava con ditte inglesi alla costruzione di ferrovie, riuscì a scappare andando in auto verso nord, passando il confine lituano e poi svedese mentre la nazione polacca smetteva di esistere sotto i colpi del patto Molotov-Ribbentrop. Poco dopo a Londra un infarto gli porta via il padre, seguono anni duri, ma si iscrive ad architettura alla Bartlett, allora evacuata a Cambridge. Fra i compagni di studi c’è Colin Rowe, poi il Warburg Institute dove conosce Rudolf Wittkower, Fritz Saxl, Ernst Gombrich, il gotha degli esiliati da Vienna e Berlino. 

Nel 1949 fa il primo viaggio in Italia, un amico della casa editrice Penguin gli consiglia di telefonare a Roma a un certo Roberto che vive in una camera ammobiliata in via Margutta. Bazlen lo porta in giro per la città, insieme parlano di Canetti (autore prediletto incontrato in seguito a Londra), di caffè e di architettura; Bobi gli regala una copia di Trotzdem (parole nel vuoto), antologia dei testi di Loos che poi Rykwert curerà per Adelphi nello stesso anno in cui esce il suo La casa di Adamo in Paradiso (1972), libro che più adelphiano non si poteva. E’ dedicato “a Roberto e Fleur” e si apre con una citazione di René Daumal, “Pour revenir au sources, on devait aller en sens inverse”. Infatti a parte Loos e a un altro affascinante suo titolo sull’antichità, L’idea di città (1976), l’architettura è rimasta lettera morta in quel catalogo. A Milano conosce un altro ebreo triestino, Ernesto Rogers, e i suoi allievi fra i quali Vittorio Gregotti, con cui nasce un’amicizia durata tutta la vita, cementata dalla comune ammirazione per Alessandro Antonelli.

Ma è soprattutto grazie all’incontro con un’altra figura milanese che Rykwert diventerà per sempre italofilo: Gio Ponti lo ospita in famiglia e ne pubblica gli articoli su Domus, addirittura nell’ultima pagina di Amate l’architettura (1957) Ponti si rammarica di non aver avuto spazio per raccontare tutti i progetti editoriali che stava facendo proprio con lui, allora trentanovenne. Ha insegnato per anni a Filadelfia e Londra, senza mai rinunciare a un paio di mesi a Venezia e a una capatina al ROF di Pesaro insieme con la moglie Anne, per cui le lingue che ha sempre parlato meglio sono il polacco, l’inglese e l’italiano – la figlia Marina Engel vive a Roma. Ha pubblicato una ventina di libri, quasi tutti significativi, forse l’architetto più amato è stato Leon Battista Alberti, ideale di intellettuale-artista completo cui si sentiva più affine “tranne per la matematica”, italiano anche in questo.
 

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