Le città visibili di Calvino
Al cinema da oggi il documentario di Davide Ferrario (scritto con Marco Belpoliti) sullo scrittore
Due voci e due sguardi s’intrecciano nel documentario Italo Calvino nelle città, di Davide Ferrario, scritto insieme a Marco Belpoliti. Da un lato le parole di Italo Calvino: quelle delle sue storie, dei suoi racconti, quelle della cosiddetta finzione romanzesca in cui compaiono Marco Polo e Kublai Khan, Quinto Anfossi e l’impresario Caisotti, fino all’evanescente vecchio Qfwfq. Dall’altro la voce di Calvino che coglie i passi della sua vita, gli incroci del suo destino spesso con una preveggenza che non è mistica, ma è al contempo razionale e nebulosa come particelle perfettamente strutturate, ma estremamente difficili da cogliere nella loro essenza primitiva. Un discorso che è al contempo autobiografico, ma fortemente pubblico, un diario privato che racconta però di un mondo per noi riconoscibile nelle sue forme, nella sua decadenza e anche nelle sue ambizioni a tratti sciocche a tratti commoventi.
Il discorso di Italo Calvino si compone così nel film su due parallele che convivono nelle giusta distanza l’una dall’altra capaci di dare nel loro insieme forma a una vera e propria architettura che in parte Ferrario coglie nel documentario che è sia di montaggio sia di finzione, ma che più di tutto è una lettura quasi continua, praticamente automatica dei testi di Calvino. Una lettura che diviene rilettura e rivelazione anche per una consapevole giustapposizione che minuto dopo minuto (riga dopo riga) i testi assumono rispetto alle immagini in cui sono immersi, ma che a loro volta essi offrono con un effetto ottico straniante quanto estremamente famigliare. Italo Calvino nelle città, tolti infatti alcuni vezzi pedagogici e un poco didascalici del suo regista, coglie la qualità di un pensiero che si fa parola e subito struttura urbana. Non è tanto nel contenuto in sé – sempre molto attento alle forme urbane – che Italo Calvino rivela un interesse specifico, ma nella cura di una civiltà che ha bisogno estremo di precisione e al tempo stesso di operatività. Una civiltà ancora fortemente della parola come si vede nell’intervista per la Bbc – recuperata all’interno del documentario da Davide Ferrario – in cui Calvino mostra i propri manoscritti a Simon Gray. I fogli rivelano infatti il complesso ginepraio di parole e correzioni e sovrascritture che poi però si disciolgono, una volta stampate e organizzate graficamente, in vere e proprie urbanità contenenti pensieri e parole.
Calvino si muove tra Sanremo e Torino, New York e Parigi e poi Roma, la città più detestata ma pure la più frequentata. Lo si scorge poi in un dialogo con la figlia Giovanna con quel buffo impaccio di chi è sempre un po’ estraneo alla propria immagine, ma mai a se stesso, come se il mondo gli stesse appiccicato addosso in una forma strutturale sempre un po’ diversa dal sentimento che invece occupa pienamente in lui. Valerio Mastandrea offre così alle parole di Calvino un disincanto commovente che sta un attimo prima del mondo senza il signor Palomar. Una rinuncia a esserci che è un richiamo alla necessità della memoria: il privilegio della parola sull’immagine.