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Terrazzo

Milano a Colori: apre la grande mostra su Elio Fiorucci

Michele Masneri

Non solo stilista ma soprattutto imprenditore e cacciatore di tendenze tra San Babila e il mondo. La Triennale lo celebra

A quasi dieci anni dalla scomparsa e novanta dalla nascita la Triennale rende omaggio a un altro figlio della Milano creativa. Elio Fiorucci (1935-2015), nella mostra che apre domani, a cura di Judith Clark, con allestimento di Fabio Cherstich, ricostruisce una biografia intellettuale ma anche industriale di una delle figure più interessanti del boom. 


Figlio della Milano del nuovo benessere del Dopoguerra – anche se tutti pensano agli anni Ottanta, aveva iniziato infatti nei Sessanta –  non è stilista, ma più che altro gran cacciatore di stili e talenti, scout e rabdomante. I suoi genitori hanno un negozio di pantofole in centro, ma lui pantofolaio non sarà mai, riciclerà invece il negozio di San Babila trasformandolo in un epicentro di modernità, e esplorerà l’universo mondo in cerca di cose nuove, possibilmente colorate. Che siano Keith Haring a cui commissiona i camerini coloratissimi per il negozio successivo di via Torino, salvo ripensarci e imbiancarli dopo poco; che sia Vivienne Westwood con cui collabora e  con cui compie scorribande al Plastic, o  Madonna, che nel 1983 durante una leggendaria festa fa saltar fuori da una torta gonfiabile; o ancora Andy Warhol, icona di tutti i colorati globali, con cui intrattiene fitta amicizia (anche se non si sa in che lingua, perché il milanese non parlava inglese), il mondo di Fiorucci è quello di un ambasciatore dell’Italia creativa che sfugge un po’ alle regole, anche quelle milanesi. 


Della sua factory fanno parte  Sottsass, De Lucchi, Mendini e in generale il gruppo post radical design e del  movimento Memphis, di cui in mostra ci sono disegni, oggetti e suppellettili. Come questi geniacci contestano il design ufficiale dei vari Magistretti e Castiglioni così Fiorucci contesta quella moda “alta” di cui Milano è diventata in quegli anni la capitale; Sottsass a partire dagli anni Ottanta progetta i negozi Fiorucci in giro per il mondo, con vasto uso di tubolare, neon, display elettronici, che fanno sembrare i negozi discoteche o studi tv. 
Rivoluzioni anche  del business model: 50 per cento dei denari investito nel prodotto, e il resto nell’immagine. Attenzione spasmodica alla comunicazione: ecco esposte le cartoline che distribuisce perfino nelle chiese, per pubblicizzare le sue scarpe (le pantofole del negozio di famiglia erano amate soprattutto dalla curia); non investe in pubblicità classica sui giornali ma in gadget “collectibles” che diventano poi “igonici”; le figurine realizzate in collaborazione con la Panini per cui a un certo punto avrà un ufficio addetto solo a rispondere ai ragazzini che supplicano di avere questi stickers. E poi la collaborazione con Oliviero Toscani e la fondamentale attenzione alla grafica.

Ma ancora soprattutto i negozi che diventano concept store e bazar tipo poi Urban Outfitters et similia  oggi: tubolari metallici disposti a griglia a cui vengono appesi a piacere abiti, oggetti, o pareti divisorie. Uno spazio libero che può essere cambiato di volta in volta. Le tubazioni dell’aria condizionata sono verniciate con colori accesi, trasformandosi in complementi d’arredo (la stessa cosa che faranno Renzo Piano e Richard Rogers al Beaubourg di Parigi). Poi, musica a palla. Nel negozio di via Torino, anche una fontana e  un ristorante, novità assoluta. E poi a New York nel 1976 il primo store disegnato da Ettore Sottsass, Andrea Branzi e Franco Marabelli, che diventa subito un palcoscenico per talenti emergenti, artisti e performer. A Los Angeles la selezione dei commessi avviene come un casting per un film.   Parla di “cultura giovanile internazionale”. “Non esistono più le culture nazionali,” dichiara già negli anni Ottanta, “esiste una cultura dei giovani, soprannazionale.” La  voce di Fiorucci echeggia in  mostra, anche da cornette telefoniche d’epoca.

Il mondo colorato di Fiorucci con le sue ambasciate è anche uno stato-cuscinetto, nella Milano della contestazione e poi delle bombe. Un’oasi accanto ai fascisti di San Babila e alle gambizzazioni delle Br. “Una gioia cromatica e liberatrice che negli anni più cupi di Milano sentivamo pulsare avvicinandoci al suo negozio in Galleria Passarella” dice al Foglio Stefano Boeri, presidente della Triennale, che da anni sognava di realizzare questa mostra su uno dei “rimossi” milanesi. In esposizione  c’è il mondo diurno e notturno di Fiorucci, racconta Cherstich, quello di giorno dell’ufficio pieno di oggetti di plastica –   e siamo, par di capire, nella grande direttrice dei grandi accumulatori plastici Arbore-D’Agostino – e poi la notte delle feste e del (mai nome fu più adatto) Plastic.


Ma sopra tutto, siam pur sempre a Milano,  il business: il suo primo successo, delle espadrillas colorate che spopolano nella Milano grigetta. E poi i leggendari jeans attillati per signora che per la prima volta vede a Ibiza e cercherà di ottenere grazie ai migliori tagliatori milanesi. E ancora, accordi con la Disney per produrre t-shirt con Topolino, e con la Montedison – siamo pur sempre nell’epoca del boom della plastica. Cadute e risalite: dopo avere ceduto il marchio alla  giapponese Edwin International (1990), riparte con la  nuova griffe di abiti e accessori Love Therapy (2003). 

Controintutivamente etero, molto amante delle donne, che compaiono ossessivamente in silhouette, è nota l’amicizia con Moana; milanese doc anche borghesone, con loden d’ordinanza; e quasi spartano nell’alloggio, perché colorato nel negozio; il suo appartamento era tutto bianco e spoglio, specie di base d’appoggio per i molteplici e frenetici viaggi, racconta al Foglio la curatrice Judith Clark. Che nella mostra ha cercato di mettere insieme tutto il mondo di Fiorucci, anche se, ammette,  “mettere tutto era decisamente impossibile”.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).