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Terrazzo

Martha Stewart, influencer prima dell'invenzione di Instagram. Il documentario Netflix

Michele Masneri

L’ascesa e il declino, e poi la resurrezione della regina americana del bon ton, della cucina e del “lifestyle”. Le analogie con Chiara Ferragni

Il documentario Netflix su Martha Stewart, regina americana del bon ton, della cucina e del “lifestyle” per usare questa brutta parola, evoca innumerevoli analogie con il caso di Chiara Ferragni. Stewart è stata infatti la prima influencer, però con riviste, trasmissioni tv e libri, tutte col suo nome e dedicate a lei, in un’epoca in cui non esistevano ancora  Internet e tantomeno Instagram. Bionda, di origini middle class, è diventata ricchissima, la prima donna self-made miliardaria di Wall Street. Poi, a un certo punto, crolla tutto per un’accusa di truffa alquanto forzata, o perlomeno di lana caprina. E lei commenterà: “Voglio solo pensare alla mia insalata”, quando le chiedono del crollo, in un’intervista tv, mentre prepara appunto un’insalata. Come non pensare all’azienda di Ferragni che si chiama proprio “The Blonde Salad”?

Qui finiscono le analogie forse farlocche. Il marito ricco e belloccio, che non assomiglia a Fedez, è Andy Stewart, e dopo varie corna inflitte (e probabilmente anche ricevute, ma lei è reticente su questo), nel 1987 lui scappa con la segretaria di lei, proprio mentre lei è in tour a promuovere l’ennesimo librone, Martha Stewart Weddings, su come organizzare il matrimonio perfetto, in un’epoca in cui non esistevano ancora i wedding planner.
Come l’altra “Marta” nostrana (senza “h”), anche lei a un certo punto fa un accordo con una catena di negozi non proprio chic per vendere i suoi prodotti, ottenendo un enorme successo. 

Martha Stewart è una donna che nel documentario viene descritta come bellissima, ma in realtà è solo abbastanza carina, e lavora freneticamente per tenere la casa perfetta, cucinare buon cibo, coltivare l’orto, organizzare bei viaggi. Poi capisce che tutto questo a cui le mogli americane sono automaticamente tenute potrebbe diventare un lavoro retribuito, e ciò che fa piace tantissimo a tante altre donne americane, dalle casalinghe alle “childless cat ladies” in carriera.

Come per il 90 per cento degli imprenditori europei  c’è un viaggio rivelatore in America, dove esistono prodotti o sistemi che in Europa non sono ancora arrivati, il suo è opposto, in Europa: cinque mesi di viaggio di nozze prolongé, durante il quale scopre che non esistono solo hamburger e zuppe Campbell, ma si possono mangiare addirittura cibi freschi che non nascono al supermercato bensì in terra, e su tovaglie non di carta. Comincia con un catering e con la ristrutturazione di un casone di campagna dove si trasferiscono col marito nei tempi ancora felici, i lavoretti sono una  passione che poi insufflerà  ad altri milioni di altre donne,    anticipando anche qui  di decenni la mania del “DIY”, do it yourself, insomma il fai da te che oggi annovera migliaia di account che ci irretiscono con le sabbiature e ripitture di vecchi casolari o appartamenti. 

Scrive il suo primo libro, Entertaining, un incrocio tra il Cucchiaio d’Argento e un diario personale. E’ un trionfo.   Poi verranno riviste, programmi TV, la quotazione in Borsa, cosa a cui tiene tantissimo, essendo stata anche, seppur per breve tempo e con successo, agente a Wall Street. A ogni passaggio c’è sempre qualche uomo che le dice “Non si può fare” (“Se apriamo anche un programma TV con te, la gente non comprerà più le riviste”, le dice un grande manager), ma lei capisce tutto, vede tutto e fattura tutto, tutto a suo nome. Crea una società strutturata a sistema solare, lei al centro, le sue aziende come pianetini. Joan Didion, in un profilo uscito nel 2000 sul New Yorker, ricorda: “Questa è una compagnia che vale 1 miliardo di dollari e che ha l’inusuale caratteristica di essere costruita attorno alla sua fondatrice, che ne è l’unico reale prodotto”. Un mix di intuito, manie di grandezza, molto lavoro, cazzimma e poca introspezione: ammette di avere scarsa pratica con la comunicazione dei  sentimenti e di essersi sposata subito per sfuggire alla famiglia del New Jersey: un padre fallito e alcolizzato, anche manesco. A casa odia gli abiti domestici, ma si aggira comunque comoda, vestita Jil Sander. Jerry Oppenheimer, biografo delle star, scrive in quella dedicata a lei: “Una donna perfetta che ha portato la perfezione alle masse.”

La quotazione in Borsa, con il rito della campanella di Wall Street, è memorabile anche se gli analisti finanziari mica erano convinti: essendo la compagnia costruita tutta attorno a lei, come la banca di Ennio Doris,  “se il Sole crolla, crolla tutto.” Pensano a un evento tragico tipo la morte, o l’infermità, tanto lontana è l’evenienza che il marchio della Gran Perfezionista si appanni improvvisamente. Naturalmente è proprio quello che succede. Non subito, però. Le azioni prima volano come i bitcoin all’arrivo di Trump: successo, soldi, aerei privati, enormi telefoni portatili in macchina. Poi il dramma: il suo agente di Borsa le consiglia di vendere certi titoli, ma viene arrestato per insider trading. Lei non ne sa nulla, ma l’occasione è troppo ghiotta per procuratori in cerca di notorietà. L’accusa è una specie di  concorso esterno in insider trading, e viene condannata a cinque mesi, dove naturalmente non perde tempo a deprimersi, ma insegna alle compagne di cella come fare l’orto e apparecchiare una tavola. Da lì segue una lenta risalita, trasformazione in icona, anche parecchio  trash rispetto alle origini, podcast, eccetera eccetera.

A breve dovrebbe uscire il suo centesimo libro, dopo Cake Perfection e Very Good Things. Di certo la sua è una controstoria femminile degli anni Ottanta, un Wall Street al femminile che avrebbe meritato un Oliver Stone da un bel po’. Ma essere donne di successo e stronze non funziona come per gli uomini. Però, se Gordon Gekko teorizzava “se vuoi affetto comprati un cane,” anche lei ha massime non dissimili: “Se vuoi essere felice per un anno sposati; se vuoi essere felice per 10 anni comprati un cane; se vuoi essere felice per sempre creati un giardino”. Insomma, un misto tra Gekko e Marella Agnelli. Mica male.
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).