Terrazzo

Questa casa non ha più pareti. Al Maxxi le architetture instabili viste da Diller Scofidio

Michele Masneri

Se queste mura potessero parlare, forse si sposterebbero.  Viviamo in un mondo in perenne movimento, tra cambiamenti climatici, crisi economiche, rivoluzioni tecnologiche e una pandemia che ci ha insegnato l’importanza di avere un salotto multitasking. Eppure, l’architettura sembra aver detto “fermi tutti”, restando rigida, pesante e noiosa come un centro commerciale alla domenica pomeriggio.

 

Ma al Maxxi di Roma, grazie alla mostra curata da Diller Scofidio + Renfro, sublime studio newyorkese delle più trendy architetture, dalla Highline allo Shed, ecco un balletto di edifici che si muovono, ruotano, si gonfiano contro il logorio della vita moderna. La direttrice del Maxxi per l’Architettura, Lorenza Baroncelli, spiega al Foglio con entusiasmo: “Non celebriamo l’architettura contemporanea, la sfidiamo”. Questa mostra, che si intitola “Architettura instabile” o “Restless architecture”, nasce anche per raccontare la contemporaneità di grandi nomi globali dell’architettura di oggi, e quello di Elizabeth Diller è perfetto, così nasce questa mostra che l’architetta americana ha curato e allestito fino all’ultimo dettaglio, dice ancora Baroncelli. Le mostre di architettura non sono sempre trascinanti ma questa sì.  Non aspettatevi una sfilata di rendering patinati o selfie con il Guggenheim. Qui si parla di mobilità, adattabilità, operatività ed ecodinamismo. Quattro termini che sembrano usciti da una riunione di brainstorming  sul Frecciarossa, ma che qui si traducono in progetti stravaganti e visionari. L’allestimento della mostra è, neanche a dirlo, in movimento continuo. Grazie a tendoni-séparé che trasformano la galleria ogni pochi minuti, delineandone nuovamente gli spazi, ogni minuto è un’esperienza diversa di fronte ai progetti novecenteschi, alcuni realizzati e altri no, che hanno sfidato la nozione di “bene immobile”.

 

Si inizia con la storica Villa Girasole dell’ingegner Invernizzi, che negli anni ’30 costruì una casa rotante per assicurare alla famiglia una perfetta esposizione solare. Altro che pannelli solari: qui si girava proprio la casa, una soluzione geniale che però ti faceva venire il mal di mare durante il pranzo. Poi c’è il capolavoro kafkiano dell’anagrafe dell’Istituto Sociale Centrale di Praga, documentato da Elizabeth Diller medesima con un documentario da lei stessa ideato e girato, dove impiegati iper-efficienti viaggiano su ascensori giganti che li incastrano tra cassetti lunghi metri di scartoffie. Non proprio lo smart working che sognavamo, ma forse servirà da ispirazione per Elon Musk e il suo nuovo Department for Government Efficiency che punta a trasformare la p.a. in un’esperienza ganzissima. Piacerebbe a Musk anche il grattacielo Bata, un edificio di Zlín, in Repubblica Ceca. Costruito in stile costruttivista su progetto dell'architetto Vladimír Karfík, fu inaugurato nel 1938 come sede dell'azienda calzaturiera, e prevede un comodo ascensore-ufficio del Capo che va su e giù, e a sorpresa te lo ritrovi (il capufficio e il suo ufficio) davanti, una specie di incubo impiegatizio tra “Mad Men” e “Il vedovo” (ma a differenza che nella Torre Velasca, cui è dedicata un’altra mostra al Maxxi, qui l’ascensore ha anche i servizi e l’acqua corrente, calda e fredda). E come non citare la prigione rotante di Montgomery County? Un carcere che ruota intorno all’unica guardia presente, un panopticon per secondini, una chicca per i fan dei penitenziari creative. Se la vede il sottosegretario Delmastro impazziesce, meglio delle auto della Polizia coi vetri oscurati che “non lasciano respirare”. 

 

Non mancano progetti meno inquietanti ma anzi poeticamente gioiosi, come il Fun Palace ideato negli anni Sessanta a Londra, giocattolone architettonico multiuso, ma mai realizzato, o il classico occhio dell’Istituto del Mondo Arabo di Parigi di Jean Nouvel, con le palpebre d’acciaio che si aprono e chiudono a seconda della luce (ma nessuno è mai riuscito a vederli in funzione) o ancora il Prada Transformer di Rem Koolhaas, ad esempio, che non è un influencer milanese che ogni sera fa aperitivo al Bar Luce bensì un edificio multiuso a Seoul pensato per accogliere una serie di mostre, proiezioni ed eventi, riguardanti il mondo della moda, del cinema, dell’arte e della cultura, che ruota su sé stesso assumendo quattro forme diverse: esagono, croce, rettangolo e cerchio. E poi lo Shed dei medesimi Diller Scofidio + Renfro a New York, una struttura d’argento che si espande o si ritrae in cinque minuti. Per gli amanti della nostalgia metabolista, c’è la classica Nakagin Capsule Tower di Tokyo, il grande edificio-Lego demolito ma non dimenticato, con la sua struttura a cellette. E nel piazzale del museo, una delle “n” cellette è lì, salvata dalla demolizione, acquistata ed esposta nell’ambito del programma di acquisizioni del Maxxi Architettura e Design contemporaneo (  vista da vicino, serve anche a rassicurarci che le nostre case magari non mobili e banali alla fine non sono così male).      

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).