Terrazzo

Il secolo rosso di Panseca, l'architetto del Psi e molto altro

Michele Masneri

Nato a Palermo, negli anni Sessanta conosce a Milano un giovane Bettino Craxi. Da lì le scenografie del Socialismo. Ma anche un ristorante, discoteche, e delle scarpe di gomma. 

Bisognerebbe fare subito una serie tv o almeno un film del filone nostalgico buonista tra 883 e Ennio Doris su Filippo Panseca, nato a Palermo nel 1940 e morto domenica scorsa. Pittore e architetto, che con altre sliding doors avrebbe avuto forse altri riconoscimenti,  oggi viene ricordato come soprattutto stilista del PSI. Infanzia palermitana, perfino una comparsata nel gran ballo del Gattopardo, poi Milano e l’incontro fatale. 

 

Si erano conosciuti negli anni Sessanta in un ristorante di Brera, rifugio di artisti squattrinati, da cui vengono cacciati tutti una sera che l’oste sbrocca. “Sei terrone? Anche mio padre lo era”, gli dice un giovane Bettino Craxi, ancora oscuro consigliere comunale. Però negli anni della gloria, da Torino  1978  in poi, Panseca progetta le quinte teatrali del socialismo, tutti i congressi, tutti memorabili e criticatissimi e parte dell’iconografia del partito poi sempre più inteso come nani, ballerine e stilisti.

 

“Fino al ’59 i congressi del  partito erano fatti tutti a Roma da gente di Roma e non c’era un’idea estetica, Panseca entra in quel momento di ricerca che il partito socialista stava compiendo. Lui era stato a New York a vedere lo Studio 54 e a San Francisco a vedere il garage della Hewlett Packard dove sorse la Silicon Valley”, racconta al Foglio Bobo Craxi. Da Palermo a Milano e poi alla California Panseca torna in Italia  portando senso pratico e non ideologico, e tecnologie allora avveniristiche come la stampante ad aghi. Scopre la plastica biodegradabile con cui vorrebbe fare il packaging ma in Europa lo prendono per matto. Si butta su  strutture reversibili, cioè grandi oggetti di plastica a scadenza  che dopo un tot di tempo spariscono,  come dimostra la   copertina di “Domus” del 1973 con un grande pallone al centro di Piazza San Pietro che echeggiava al contempo Nicolas Ledoux e Superstudio.

 

Poi c’è la mostra “Canova e Panseca” a Brera nel 1981 con una Vittoria alata completamente biodegradabile. Ma costruiva anche piccole palle di plastica a tempo “che mio padre collezionava” dice Bobo Craxi. In un certo senso Panseca è stato l’inventore dell’effimero molto prima che questo tema diventasse egemone grazie all’evoluzione delle cose. Primavera milanese contro l’Estate romana di Renato Nicolini? E poi  Paolo Portoghesi – altro alfiere del PSI nonché presidente della Biennale che in una celebre intervista dichiarò “il postmoderno è Craxi”. Per un periodo Pippo Panseca fa la spola tra Milano e Roma, stando dalle parti di Campo de Fiori e frequentando altri  palermitani come Renato Guttuso o Ignazio Moncada. “A Milano invece frequentava Cascella, Recalcati, Rotella. A un certo punto mise su pure un ristorante dalle parti di Moscova”, dice sempre Craxi. La passione per la cucina è un’altra delle caratteristiche di Panseca, con le sue cene-comversazione nei musei e poi l’apertura proprio del  ristorante. L’esperienza dello Studio 54 gli serve anche per il design di discoteche: disegna il Number One, a Milano e a Roma. Poi il Covo di Santa Margherita, il Covo di Nord Est, poi lo Studio 54 omonimo sempre a Milano. De Michelis è ancora di là da venire, la guida alle discoteche con prefazione di Gerry Scotti pure, ma Panseca si butta su questo nuovo business e  format di intrattenimento anche architettonico. E’ amico di Joe Colombo e a un certo punto disegna pure delle scarpe di plastica per Valentino. Posa per la rivista SuperSex, quella che ispirava Rocco Siffredi. A Milano la bohème ai biliardi specie da Oreste (amico di Pinelli)   in zona Brera, dove potevi incontrare Giangiacomo Feltrinelli, i fratelli Pomodoro, Ugo La Pietra e Mimmo Rotella. All’Accademia di Brera terrà un corso sulla computer art per trent’anni, frequentando Pierre Restany, ideologo del nouveau realisme francese.

 

Dal realismo al socialismo magico: il congresso più scenografico è stato senza dubbio quello leggendario del 1989 alla ex Ansaldo di Milano, quello col faccione di Craxi su una piramide di plexiglas. “La cosa importante più che la piramide era l’Ansaldo. Nacque tutto perché Panseca aveva un ufficio lì vicino. Il comune di Milano aveva  acquisito il sito ma nessuno aveva mai fatto un congresso in un ex fabbrica”, dice sempre Craxi jr.  “Si fece un grande strepito sulla simbologia massonica, ma non avevano capito niente, e alla fine era solo un grande televisorone”. A Panseca interessava soprattutto il discorso tecnologico: un enorme palco, lungo 100 metri e largo 70,  Bettino come Taylor Swift; come nelle moderne convention di oggi, c’erano collegamenti video impensabili all’epoca, i delegati potevano vedere dal loro camerino cosa succedeva sul palco, e tutto venne trasmesso in diretta sul canale 36. Per la prima volta i giornalisti avevano una sala stampa coi monitor. “Per far arrivare i led ci fu l’intervento del ministro del Commercio Estero Renato Ruggiero, perché c’erano delle quote fisse di import/export col Giappone”, racconta il figlio del leader socialista. Ma prima c’era stato il congresso di Verona dell’84, con grandi neon bianchi su sfondo blu, come in una serata al Plastic.  “L’idea era di legare ogni singolo congresso a un’immagine che sarebbe rimasta impressa”, dice Bobo Craxi. 


E prima ancora Torino ’78 – per gli esperti, è come parlare dei Pink Floyd a Venezia. Lì, nella scenografia rossa come in Rocky,  c’è il clamoroso cambio del simbolo, mentre l’Italia sta col fiato sospeso per il sequestro Moro.  “Via la falce e martello dei bolscevichi, via il libro e il sole nascente riformisti”, scrsse  accorato  Gianni Riotta sul Manifesto. Panseca sostenne che il cambio di simbolo nacque a tavola, al ristorante Ai tre scalini di piazza Navona con Martelli, Formica   e Craxi che tra uno spaghetto e un supplì dice: stai facendo mostre? Ah, no? Allora perché non ci disegni il nuovo simbolo?”. Enorme indignazione dei “vecchi”. “Ma tanti non sapevano che il garofano era da sempre nella storia iconografica del Partito socialista”, dice ancora Bobo Craxi. Rino Formica, che era a capo dell'amministrazione, e Nerio Nesi, che  aveva seguito l'organizzazione del congresso, insorsero. “Dov’è il simbolo? Eccolo”. Chiamano tutti Bettino che sta facendo le prove del discorso ma Panseca riesce a prendere la linea per primo. “Lui dice che va bene, ma di mettere un vecchio simbolo, più piccolo, sotto. Ma era l’una di notte. Allora fa aprire una tipografia e mettono un simboletto di polistirolo sotto, e una bandiera italiana sul podio”, dice sempre il figlio di Craxi. 

 

E poi ancora Rimini 1987, la Rimini tondelliana dove questa volta l’enorme garofano svetta sotto un enorme timpano. Anche lì, critiche bestiali. “Tutti dissero che Craxi si faceva faraone, ma la verità è che nel centro congressi c’erano già delle gran colonne e Panseca semplicemente le replicò, oltre ad accennare a un foro romano o greco, quindi alla vita democratica”, e in più forse c’è anche un omaggio al Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti. E ancora: la conferenza programmatica del 1990 con un gigante finto muro di Berlino. Il giorno dopo, ricordò Panseca in un’intervista al sito Gizmo, su Repubblica pubblicarono pure una vignetta di Forattini, con Bettino che regalava a Occhetto un pezzo del muro e Occhetto gli risponde: ”No non lo voglio, è di Panseca!”. E ancora il garofano che a Palermo spunta dal monte Pellegrino, come in un’opera di land art. Lui si occupò anche delle tessere, insomma della “corporate identity” del partito, diremmo oggi. “Disegnava congressi come se disegnasse un Lp, ma del resto il partito socialista rispetto ad altri aveva sempre avuto un’attenzione all’estetica”, sempre Bobo. E’ morto a Pantelleria, dove si era trasferito anni fa. Ha disegnato anche i manifesti e il simbolo per una lista civica pantesca. E, naturalmente, lo studio televisivo della Domenica sportiva.
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).