Foto LaPresse

Terrazzo

Quant'è grande la Grande Brera 

Camilla Baresani

Era da 52 anni che si attendeva uno spazio dedicato alle collezioni del Novecento e in prospettiva al contemporaneo. Le stanze intime, poco museali, decorate da Tomaso Buzzi, danno l’idea di una casa abitata da appassionati di un’arte ancora figurativa che non richiedeva un white wall 

Sono passati 52 anni dall’idea primigenia di un ampliamento della Pinacoteca di Brera dedicato all’arte moderna e contemporanea. Venerdì scorso, l’inaugurazione che ha interrotto il maleficio. Palazzo Citterio, parte della Grande Brera (progetto e denominazione di Franco Russoli, direttore della Pinacoteca dal ’57 al ’77) è finalmente a disposizione del pubblico, anche se fino a maggio sarà aperta solo dal giovedì alla domenica, dalle 14 alle 19. Davanti alla Fiumana di Pellizza da Volpedo, accanto a due grandi Boldini, il direttore Angelo Crespi, emozionato e affannato (sono passati solo 11 mesi dalla sua nomina), cita il filosofo caro alle destre, Hegel, per il concetto di Zeitgeist, termine che in verità Hegel non ha mai utilizzato. Che importa. Conta che finalmente Milano inizi ad avere la sua Grande Brera.

 

Nei ringraziamenti, Crespi non cita l’ex direttore Bradburne, come notano perfidi giornalisti e, per introdurre la sua vice, Chiara Rostagno, dichiara (autoironicamente, immaginiamo) che dietro ogni uomo importante c’è una donna che alza gli occhi al cielo. Tutti insieme, Crespi e Rostagno, con Marina Gargiulo responsabile delle collezioni del XX secolo della Pinacoteca, con Mario Cucinella che ha curato l’allestimento delle sale e il tempietto smontabile installato nel cortile, ispirato a quello bramantesco di “Lo sposalizio della Vergine”, e con Luca Molinari che ha ideato l’imperdibile mostra “La Grande Brera. Una comunità di arti e scienze” hanno contribuito a ridare fiato all’orgoglio milanese, ultimamente appannato. E’ anonimo il doppio scalone che porta al piano nobile, già criticato da Bradburne: fa pensare di essere entrati negli uffici di una società di consulting. Però poi ci si appassiona vedendo finalmente esposte le donazioni di due famiglie di collezionisti ebrei che hanno puntato la trasmissione della propria passione per l’arte su Milano e su Brera: Emilio e Maria Jesi, Lamberto Vitali. Boccioni, Morandi, Modigliani, Sironi, Carrà, De Pisis, Rosai, Severini, Soffici, Marini e Martini, Bonnard, Scipione, Mafai, Picasso, e altri ancora. Le stanze intime, poco museali, decorate da Tomaso Buzzi, danno l’idea di una casa abitata da appassionati di un’arte ancora figurativa che non richiedeva white wall e spazi tonitruanti. Nell’ipogeo progettato da Stirling, ecco una mostra temporanea di Ceroli, con le sue foreste di tronchi, e al secondo piano la mostra che racconta con modelli, mappe, documenti, fotografie la storia di Brera, dei suoi 500 anni di trasformazioni, da spiazzo erboso (braida) a sede del monastero degli Umiliati, poi del Collegio Gesuitico e dell’Osservatorio Astronomico, per arrivare alle trasformazioni di Maria Teresa: la Biblioteca Braidense, l’Orto Botanico, l’Accademia, la Pinacoteca, l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere.

 

“Un luogo di intelligenza collettiva che produce sapere, il primo edificio laico multidisciplinare”, dice Luca Molinari. La mostra mette in fila, grazie anche a prestiti strepitosi, le vicende architettoniche di Brera. Un elenco sterminato di progetti quasi mai realizzati, di nomi di architetti (Richini, Piermarini, Portaluppi, Terragni, Albini, Belgiojoso, Magistretti, Gardella, Gregotti, Zanuso… fate dei nomi e ci sono) che hanno usato Brera come un laboratorio progettuale.