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Terrazzo

Nuove esposizioni. Gli immersi e i salvati (da una mostra) 

Giulio Silvano

Dagli iris blu dipinti nell’ospedale di Saint-Rémy che prendono vita, all'acqua che invade le cabine del Titanic mentre affonda. L’utente come un sub si tuffa in un’esperienza “plurisensoriale” e “a 360 gradi”, come nei luna park un tempo dove si andava per provare una giocosa paura nella Casa Infestata

C’è una parola fastidiosa e abusata che da qualche tempo accompagna l’esperienza artistica e museale: si tratta di immersività. Il manufatto è sostituito da proiettori, il dettaglio diventa protagonista, la cornice scompare (cosa direbbe Benjamin? L’opera d’arte nell’epoca della sua proiettabilità al Mudec). La materia non serve. L’utente come un sub si butta in un’esperienza “plurisensoriale” – fondamentalmente visiva e sonora – e “a 360 gradi”, come nei luna park un tempo dove si andava per provare una momentanea giocosa paura nella Casa Infestata. Nuova frontiera delle mostre blockbuster dove i curatori sono sostituiti dall’Ai e dagli “Oculus di ultima generazione”. Il grande nome che tutti conoscono – Van Gogh, Klimt, Monet, paesaggisti giapponesi – diventa accessibile senza dover andare al Getty, viene sparato in dimensioni enormi tutto intorno a te, come la banca di Ennio Doris. Gli iris blu dipinti nell’ospedale di Saint-Rémy prendono vita, come farfalle, nelle sale di un ex cinema a Piazza Fiume “rompendo gli schemi espositivi tradizionali”. E anche le tragedie ormai troppo lontane per causare empatia (immaginate una mostra “immersiva” sulla Costa Concordia o sul bus bruciato a Mestre?) diventano occasione di sbigliettamento: Titanic, un voyage immersivo a Milano. Imbarcati in un viaggio senza tempo, a 18 euro e 90. grande successo per la mostra che va avanti fino ai primi di febbraio allo Scalo Farini. C’è anche l’acqua che invade le cabine. Gli immersi, i sommersi e i salvati.

 

                  

 

Se vogliamo salvare la parola con la ‘i’ possiamo però vedere l’approccio di un artista, non di un dipartimento marketing, come Gerhard Richter, che passati i 90 anni ha ancora voglia di usare le nuove tecnologie. “Il problema oggi è che tutta la natura, qualsiasi cosa, viene catturata dalle fotografie, quindi non c’è niente da dipingere”, diceva qualche anno fa. Alla Gagosian di Roma c’è il suo Moving Picture (946-3) Kyoto Version, un video fatto in collaborazione con Corinna Belz, su uno schermo di trenta metri quadrati che dura 36 minuti. Parte da un pattern colorato che potrebbe essere la fodera di una giacca di Paul Smith, per poi rapidamente passare a una sciarpa di Missoni e trasformarsi in qualcosa di ipnotico e sempre più intricato e ritmato. Un gioco di specchi e riproduzioni e ritagli iniziato con Strip che qui, con squilli di tromba e stridii, assomiglia all’esperienza della meditazione, al trip psichedelico. Un mandala digitale alla tedesca, simmetrico, che si fa e si disfà, un ordinato caleidoscopio imprevedibile che crea mostri e sagome con quelle che sembrano complesse divinità induiste, e macchie di Rorschach da perderci anni di analisi. A tratti lo schermo è come se respirasse, e c’è qualcosa di dark, di demonico, nelle immagini percepite, nonostante i rosa accesi e i verde acido e i violetti lavanda di questo arazzo in movimento. “E tu cosa ci vedi?”, si chiedono le sciure nella sala buia.
 

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