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Terrazzo

Una Scala per Milano. La storia del “più bel teatro del mondo” in un nuovo libro

Manuel Orazi

Il lavoro di Pierluigi Panza, “La Scala, architettura e città”, ricostruisce non solo la concezione e realizzazione dell’edificio neoclassico, ma, cosa più rara, la sua vita successiva all’inaugurazione del 1778

Davvero curioso come i due edifici più importanti del centro di Milano intorno al Duomo siano entrambi opera di architetti umbri. Il manierista Palazzo Marino della metà del Cinquecento, commissionato da un nobile genovese e oggi sede del Comune, è del perugino Galeazzo Alessi. Due secoli dopo il folignate Giuseppe Piermarini, divenuto imperial regio architetto per tutta la Lombardia asburgica, progettava “il più bel teatro del mondo” secondo Stendhal.

Il libro di Pierluigi Panza, “La Scala, architettura e città”, (Marsilio) ricostruisce non solo la concezione e realizzazione dell’edificio neoclassico, ma, cosa più rara, la sua vita successiva all’inaugurazione del 1778 con L’Europa riconosciuta di Antonio Salieri – Gluck cortesemente rifiutò, troppo impegnato a Vienna – fino ai giorni nostri passando quindi per Napoleone, il Risorgimento, Verdi, il fascismo, i bombardamenti bellici, Maria Callas, le contestazioni del ’68 ecc. La rapida progettazione di Piermarini era avvenuta grazie a un altro gran rifiuto, quello del suo maestro Vanvitelli, preoccupato dalle ristrettezze del budget raggranellato dal conte Carlo Giuseppe di Firmian. Per questo Piermarini è stato a volte giudicato come di basso profilo, e invece, secondo Aldo Rossi era l’interprete pragmatico di una nuova visione professionale che trovava proprio nel tema imposto, nei suoi limiti pratici, la ragione del proprio lavoro per la nascente borghesia milanese illuminata dai lumi della ragione. Giudizio valido per tutte le altre opere piermariniane e dei suoi allievi lombardi e ticinesi: Palazzo Belgiojoso, l’Accademia di Mantova, l’Università di Pavia e gli altri due teatri più piccoli, quello nella Villa Reale di Monza e la Canobbiana (oggi Gaber).

Teatri moderni cioè a ferro di cavallo, dall’ottima acustica e visibilità – anche se Stendhal si lamentava che dalle prime file non riusciva a vedere le gambe delle ballerine –, tutto il contrario cioè di quelli all’antica rifatti dai veneti Palladio e Scamozzi. Pietro Verri, presente alla prima, scrive al fratello Alessandro a Roma che “gli occhi sono sempre occupati” ma la facciata, che pure gli era piaciuta sulla carta, era compromessa dalle case prospicienti e dal portico per le carrozze che ne impediva la visione. Verrà accontentato poco prima dell’Unità d’Italia quando cioè nel 1858 sarà aperta la piazza omonima con la nuova Galleria del Mengoni collegata a piazza Duomo. La prosa distesa e accomodante di Panza spazia dalle frenetiche partite a dadi del giovane Manzoni nel caffè fino agli ampliamenti funzionali e tecnologici aggiunti da Mario Botta (nell’ellisse e nelle torri sul retro verso Brera) che, sottolinea nella prefazione, fanno della grande macchina scaligera un archetipo territoriale della memoria condivisa milanese perfettamente aggiornato.