Terrazzo

Il divorzio tra hippy e yuppy e la crisi di mezza età dei tech bro

Michele Masneri

I maschi della Silicon Valley si confessano, siamo con Trump. Dal "fuck you money" al "fuck me money"

Non ci sono solo i più famosi, Mark Zuckerberg e Elon Musk e Jeff Bezos, i voltagabbana della Silicon Valley in senso esteso, per dire i “tech bro”, i maschioni tecnologici che ieri erano in prima fila a festeggiare Trump (che questo riposizionamento arrivi poi insieme a una loro apparente crisi di mezza età, come per esempio nel caso del fondatore di Facebook, forse è solo una coincidenza). Sui social  è tutto un parlare di “divorce vibe” per Zuck che oltre a fare la boxe, a farsi crescere il ricciolo selvaggio, chiede “più energia virile” in azienda, non disponendo di razzi ha spostato parte del personale nel più maschio Texas e altre cose che forse sono l’equivalente di comprarsi l’Harley Davidson e farsi un tatuaggio per l’impiegato di livello base.

 

No, a stupire sono anche quelli magari meno celebri. Qui siamo rimasti un po’ scioccati nel leggere il tweet di Joe Gebbia, uno dei fondatori di AirBnb, che ieri cinguettava: ebbene sì, ho votato Trump, più tutta una disamina di motivi. Gebbia è una figura meno nota dei grandi titani della Valle ma non per gli addetti ai lavori. Architetto, laureato alla prestigiosa Rhode Island School of Design, era il volto umano della già umana compagnia degli affitti brevi. La loro sede, pareti ricoperte di fiori, mensa sempre aperta con tutte le leccornìe più vegan e sostenibili, avocato e zenzero a strafottere, era meta obbligata a San Francisco ai tempi d'oro. Leggendarie le loro convention. Quando si andò a Los Angeles nel 2017 c’erano le transenne per le proteste contro Trump.

 

Ora Gebbia dice che vota Trump perché i Democratici non hanno un piano, una visione, per il problema dell’immigrazione e dei furti (“mi piace l’idea di ritrovare la macchina dove l’ho parcheggiata”). Gebbia, che viene spesso a Milano al Salone del mobile (e forse troverà i maranza e il vetro rotto più che a San Francisco) è proprio un dramma personale (mio): nel '17 lo avevo accompagnato per un reportage sull’antico IL del Sole-24 ore, in Sicilia, in un piccolo paese chiamato Mezzojuso da cui discendeva la sua famiglia. Passammo insieme una giornata, io, lui, il suo seguito, una sua assistente asiatica molto assertiva; lui aveva dormito a Palermo al palazzo Lampedusa trasformato in AirBnb e non aveva mai sentito parlare del Gattopardo (ora forse con la serie Netflix avrà un’agnizione). Era tutto preso dalle ricerche genealogiche che qualche astuto gli aveva prodotto a caro prezzo, immaginiamo, sui suoi legami ancestrali col paesino di Mezzojuso. Arrivati lì, sembrava veramente il principe di Salina quando arriva a Donnafugata, accolto dai notabili con tutti gli onori. Si presentarono molti Gebbia, vantando la parentela, si trovò perfino una piazza Gebbia (molto malmessa, col balcone di un palazzo storto dal passaggio di un camion) ma lui era entusiasta, vero zio d’America. L’obiettivo era di portare poi suo padre e tutta la famiglia in un viaggio a sorpresa (ogni anno a Natale si facevano complicate sorprese e sciarade a vicenda, era la tradizione di famiglia, mi raccontò, era anche un modo che suo padre aveva usato per stimolare la fantasia nei figli).

 

Gebbia è il classico bravo ragazzo, non roccioso come Brian Chesky, l’altro fondatore; certo forse ci saremmo dovuti insospettire dall’alto numero di selfie in palestra che posta negli ultimi anni (vorrà diventare muscoloso come Bezos? forse c’è un legame tra le endorfine da palestra e il nuovo mondo americano?). Ma anche un altro “buono” siliconvallico, il fondatore della Salesforce Marc Benioff,  due giorni fa twittava entusiasta auguri al neo presidente. Benioff, accumulata una enorme fortuna col suo software aziendale, eretto il monumento al suo ego nel modo più basilare e classico (la Salesforce Tower, grattacielo ora più alto di San Francisco), era considerato uno dei titani più progressisti nella Silicon Valley. E’ anche proprietario del Time magazine, per ricordare  quell’altro momento ormai vago ricordo in cui i tech bro buoni salvavano giornali (Bezos il Washington Post, la moglie di Jobs l’Atlantic…com’erano buoni!).  

 

Benioff, che nelle passate elezioni aveva sponsorizzato la vice presidente Kamala Harris, in queste si è arrabbiato proprio perché Harris  non ha voluto farsi intervistare dal suo giornale. Ma non può essere solo questo. Il premio Nobel Paul Krugman, sinistrissimo newyorkese, nella sua newsletter su Substack scrive che questi ricconi che si sono riposizionati non lo fanno veramente per soldi, perché ne hanno talmente tanti che anche se si opponessero a Trump rimarrebbero comunque miliardari. “Sono a un  livello di ricchezza” scrive in un post intitolato “il club dei patetici miliardari”,  che si può definire “fuck you money”, cioè soldi che ti consentono di fare davvero ciò che ti va, tipo Warren Buffett che vive spartanamente o Bill Gates che decide di sradicare malattie in Africa. Ma accanto al “fuck you money” c’è però il pericoloso “fuck me money”, la ricchezza stratosferica di questi maschi (sono tutti maschi) che nonostante i dollaroni decidono di inchinarsi al potente, per loro insicurezza e codardia.

 

E' una tesi angosciante. Una terza versione del Grande Riposizionamento è quella di Marc Andreessen, leggendario investitore della Silicon Valley, che col fondo Andreessen-Horowitz ha finanziato AirBnb e prima ha praticamente inventato Internet con Nescape, per dire.   In un podcast-confessione (questa è anche una storia della fine di un certo mondo mediatico novecentesco, tra Kamala Harris che non parla col Time e gli altri che parlano solo via  podcast e newsletter) Andreessen insomma ha detto al podcast di  Ross Douthat sul New York Times che la Silicon Valley non è mai stata veramente di sinistra. La Silicon Valley, cioè la grande periferia di San Francisco che fa parte della  Bay Area, era “normie republican”, repubblicana basica. Poi a un certo punto gli yuppy della Valle si sono fusi con la cultura, quella sì, di sinistra, della città di San Francisco (diritti, marce per la pace, figli dei fiori).

 

Quando è arrivato lui dall’America profonda, negli anni Novanta, il Partito democratico si stava ricostituendo, era fico, appoggiava le nuove tecnologie, le imprese, le startup. I repubblicani invece non sapevano neanche come fosse fatto un computer. Dunque appoggio a Gore, Clinton, poi Obama. “Fai i soldi, poi li restituisci alla società, abbracci le cause di moda, tutti diranno che brava persona sei stata, era il percorso obbligato e normale”, ha detto. “Facevamo talmente soldi che anche un po’ di tasse in più ci sembravano il giusto prezzo da pagare”. E se le cose stanno così “sarò un buon Democratico per sempre, ho pensato". Inciso: qualche anno fa una mostra al De Young Museum di San Francisco sulla "Summer of Love" del '67 mostrava come simbolo un palo stradale con due cartelli contrapposti, due strade che si incontravano, "hippy" e "yuppy". 

 

Il matrimonio, d’interesse,  tra hippy e yuppy, ha funzionato alla perfezione per un bel po'. Ora non più, è l’ora del divorzio.  Così, ha spiegato Andreessen, il governo Biden è stato pessimo contro i "tech bro": non ha capito niente di criptovalute (un’altra ossessione di questi maschi tecnologici), aveva idee strampalate sull’intelligenza artificiale, ha messo in chiaro che nel futuro l’IA sarebbe stata completamente controllata dallo Stato, e di scordarci le start-up. "Siamo usciti da un incontro alla Casa Bianca e abbiamo detto: basta, votiamo Trump”. Andreessen non dà spiegazioni sulla tranquillità di votare uno che ha lasciato assaltare il Campidoglio e che dice che i giornalisti andrebbero ammazzati (ma forse intende graziare i podcaster). Alla fine speriamo che questi tech bro non si siano sbagliati, speriamo abbiano ragione: del resto scemi non sono. Non sia mai che dopo il divorzio e la crisi di mezza età tornino a casa e dicano: è stata solo un'avventura. Sempre che ci sia ancora una casa, vabbè.

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).