Benito Mussolini posa una piastrella all'inizio della costruzione di un nuovo edificio a Roma, il 19 febbraio 1935 (Gamma-Rapho via Getty Images) 

Terrazzo

Mussolini il "romaniolo", e il ruolo di Roma col fascismo

Michele Masneri

Il ruolo che la capitale ebbe per il fascismo e il Mussolini entusiasta urbanista nel nuovo saggio di Ernesto Galli della Loggia

Si intitola “Una capitale per l’Italia”, sottotitolo “Per un racconto della Roma fascista” l’ultimo saggio di Ernesto Galli della Loggia appena uscito per il Mulino, ma si potrebbe anche chiamare, in un trattamento per la tv, “M va in città”. E’ infatti il racconto di cos’è stata Roma per il fascismo e il fascismo per Roma. La tesi centrale è che solo col fascismo la capitale d’Italia diventa veramente capitale, diventa quella “terza Roma” che dopo l’Impero e il Papato avrà un ruolo fatale ai destini della Nazione (salvo poi incorrere nei noti problemi).

 

Mussolini non si innamora subito della capitale unitaria, che anzi è unanimemente disprezzata: è la città dei “duecentomila impiegati” e, come scrive Papini, non si capisce questa “ostinazione avolere la capitale d’Italia in mezzo ad un deserto, […] in mezzo a una popolazione che per vanità di ricordi e malgoverno di preti trattava gl’italiani di piemontesi e non aveva nessuna voglia d’ingegnarsi né di lavorare, abituata come era a vivere di benefici ecclesiastici e di minestre di frati”. E’ “una città di provincia, con in più il governo”, come ancora anni dopo l’avrebbe definita Eugenio Montale (o anche l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo, secondo la celebre massima di Francesco Saverio Nitti). O ancora per Gobetti “Roma montecitoriale, fogna di delinquenza e di perversità degenerata”.

 

Il Duce prima la disprezza: “Roma città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti, di burocrati. Roma, città senza proletariato degno di questo nome, non è il centro della vita politica nazionale”, aveva tuonato dalle colonne di “Lotta di classe” (vabbè), all’indomani del suo primo viaggio a Roma, nel 1910. Ma poi corregge il tiro, una volta capo del governo: “Sino dai giorni della mia lontana giovinezza – s’inventa – Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita. Dell’amore di Roma ho sognato e sofferto, e di Roma ho sentito tutta la nostalgia. Roma!”. Poi effettivamente se ne innamora. Ugo Ojetti, fascistissimo e romano direttore del Corriere della Sera, con casa a Santa Marinella, annota: il Duce “vibra tutto a petto gonfio, a testa alta, felice. E’un innamorato di Roma, un romaniolo che adora la madre e la rivuole regina senza confronti”.

 

Da appassionato, Mussolini naturalmente dà il via ai noti sventramenti, che creeranno Piazza Venezia e i Fori, insomma il volto moderno della città, sventramenti che sono stati troppo ingiustamente giudicati dalla critica del Dopoguerra, scrive Galli, un po’ perché prima per esempio Campidoglio e Colosseo erano immersi da baracche e luride botteghe. Un po’ perché questi sventramenti erano teorizzati già nell’Ottocento e altrove invece apprezzatissimi (vedi il barone Haussmann a Parigi). Così, se i Fori imperiali (ma all’epoca era Via dell’Impero) vengono inaugurati il 28 ottobre 1932, in occasione del decennale della marcia su Roma, da un Mussolini a cavallo, in alta uniforme con un pennacchio bianco sul fez e seguito dall’immancabile schiera di truppe, Antonio Cederna, il più spietato critico della Roma fascista, scriverà: “La creazione di via dell’Impero attraverso le impressioni di turisti e viaggiatori stranieri [...] servirà alla causa del fascismo più di qualunque altra opera del regime”; e il facitore della Via dell’Impero, Antonio Muñoz, storico dell’arte e soprintendente, uno dei massimi progettisti-esecutori degli sventramenti mussoliniani, si giustificò al processo di epurazione del 1945 richiamandosi ai numerosi analoghi progetti messi a punto nel corso dell’Ottocento e fino alla Grande Guerra. E fu prosciolto.

 

Mussolini poi si innamora di e gestisce Roma come un Berlusconi Milano 2, con occhio al dettaglio da settentrionale e la frustrazione che coglie tutti noi nordici davanti alla drammatica assenza del concetto di manutenzione; così fa deviare il tram da via del Tritone, controlla aiuole, monumenti, tombini, e si lamenta, possibile che con le migliaia di dipendenti comunali me ne debba accorgere io? A proposito di tombini, il saggio di Galli si apre su quell’infinità di segni mussoliniani che costellavano e costellano ancora la Roma fascista dopo il fascismo, fasci e “Dvx” ovunque, e che regolarmente danno il via a puntuali critiche sul “come fanno gli italiani a vivere in mezzo a tutti questi retaggi del fascismo”. Come quella della storica Ruth Ben-Ghiat nel 2017 sul New Yorker. Domanda stupida, sostiene Galli, perché in realtà i veri segni del fascismo sono pochissimi, anzi uno solo: la stele con l’iscrizione “Mussolini dux” davanti al Foro italico con l’appendice dei mosaici della pavimentazione del grande viale che dalla stele conduce allo stadio Olimpico. Sono invece rimaste, queste sì, moltissime costruzioni di ogni tipo che tutte ricordano in un modo o nell’altro (il più delle volte anche con delle scritte) il regime. E sarà che il fascismo ha costruito tantissimo, sarà che a Roma è impossibile qualunque cancel culture, diciamo noi (ricordiamo il sublime episodio del Malconcio nei “Nuovi mostri”, dove Alberto Sordi si perde in auto e cerca riferimenti come il “monumento a Mussolini”, sembrandogli normalissimo - in realtà è a Mazzini).

 

E poi, due piccole note di attualità sulla cancel culture alla romana: primo, che le nuove aperture della metro C slittano di molti mesi perché il progetto originario prevedeva una fermata “Amba Aradam” (proprio vicino alla casa-museo Sordi), che però dopo alcuni ripensamenti diventa “Porta Metronia” (i ripensamenti costano anche un esborso extra di 859 mila euro per le nuove insegne ecc). Mentre l’unica forma di “cancel culture” di manufatti fascisti romani è quella che si accanisce sul verde. Gli italiani saranno pure un popolo di eroi, santi ecc. come si legge sul Colosseo quadrato dell’Eur ma di sicuro non amano la natura. Neanche al Duce è riuscito di trasformarci in un popolo meno complessato sulle origini contadine: e dunque a Roma come ovunque si procede alle nuove piazze e piazzole eliminando alberi. L’odio per gli alberi insieme al grande rimosso della manutenzione mette del resto d’accordo tutti, il comune, le sovrintendenze, gli architetti e i cittadini che temono il ramo e la resina sulla “maghina”. Così adesso stanno scomparendo tutti i pini marittimi che piantò “Lui”; da corso Trieste in giù, con la scusa che son troppo grandi e pesanti (l’idea della potatura, versione verde della manutenzione, rimane fuori discussione). Già Virginia Raggi ideologicamente l’aveva promesso, di passarli tutti con la motosega, i “pini piantati durante il regime fascista”, tracciando il solco, ma adesso Gualtieri lo difende. Così la Roma che da Goethe in poi è immortalata costellata di pini marittimi in poco tempo sparirà, nel disinteresse generale.

 

Comunque, proprio in corso Trieste ormai di moncherini e poi a piazza Dalmazia e nelle vie Pola e Gorizia rimane l’onomastica mussoliniana, perché anche quella era un’arma di propaganda del Mussolini urbanista, che Galli assolve a pieni voti. E insomma se fossimo a Milano saremmo in pieno Vittoria Mutilata District, e sembra di vederlo il trasvolatore Marinelli che interpreta il Duce volante quando va a trovare D’Annunzio in biplano (anche se nelle interviste l’attore, subito dopo la vergogna per interpretare Mussolini, fa sapere che ha problemi anche a prendere l’aereo, in quanto troppo inquinante. Dunque, in quelle riprese, avrà provato vergogna doppia, vabbè). Altri “naming” però son stati davvero cancellati: piazza Montecitorio a un certo punto era diventata piazza Costanzo Ciano, una via Libro e Moschetto fu aperta davanti all’università (oggi è via Piero Gobetti), e l’attuale piazzale Partigiani era addirittura piazza Adolf Hitler. Un po’ troppo.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).