(foto Ansa)

Terrazzo

Roccaraso, Ovindolo o Cortina, settimana bianca blues

Michele Masneri

Di tamarri napoletani, lombardi impoveriti e perché oggi sciare è diventato un miraggio (anche senza TikTok)

Confesso, non sono mai stato a Roccaraso (che incipit!). Abitando soprattutto a Roma, però, da adulto, sempre ha aleggiato in me quella tentazione di esplorare i luoghi di sci meridionali, essendo clamoroso per noi nordici il contrasto e l’ossimoro del connubio tra “sud” e “sci” (fino all’estremo sciare sull’Etna con vista mare). 

 

Anche perché si sa che uno dei pochi vantaggi di esser nordici è il senso di superiorità; un altro era la vicinanza con le piste; poi, naturalmente, pagavamo cari entrambi; la settimana bianca  era infatti un naturale ennesimo sfogo al sadomasochismo lombardo, per cui tutti hanno il ricordo di micidiali lezioni di sci  con la maestra tirolese (nel mio caso, la terribile Kristina con la K, a Santa Cristina in Valgardena) che nell’alba livida ti rifilava bacchettate sulle gambe, poi la risalita a scaletta, con gli sci pesanti e lunghissimi, “una spanna sopra la testa”, ennesima variazione della condizione dell’orrore gaddiana declinata nello sport (non si può mica sempre divertirsi!). 

  
Lo sci era quindi anzitutto sofferenza. Da qualche anno (oppure emigrando a Roma) si scopriva che lo sci poteva non essere solo penitenziale, dunque una volta inurbati nella Capitale si scopriva Cortina e le sue lusinghe, lo strudel di Lovat e lo shopping in Cooperativa e la libreria Sovilla e i tostini a Villa Oretta possibilmente ospiti. Insomma si poteva benissimo non sciare (anche perché poi tornando a sciare da adulti ci si frantumavano arti, e si finiva dal formidabile dottor Paratore, ortopedico al manniano ospedale Codivilla, ’ncopp  a Cortina).

 

Però, rimaneva il dubbio: chissà come saranno mai Roccaraso, il Terminillo, Ovindoli (Che Mario Brega, nel primo “Vacanze di Natale”, pronuncia “Ovindolo”, “perché è ignorante, non è mai stato a sciare e non sa neanche che esista, Ovindoli”, mi spiega ora Enrico Vanzina molto divertito da tutta questa vicenda); poi comunque “non s’ebbe tempo” di fare queste esplorazioni. 

 

Adesso però arriva la famosa invasione dei napoletani a Roccaraso, e pure a Ovindolo/i, al netto di pendenze e derive penali (si sospetta un’attività di riciclaggio, troppe banconote da 20 euro, dice la Finanza, perché 20 euro è la tariffa fissa di questi pullman, compreso di caffè e cornetto).  Ma è evidentemente un clash culturale molto interessante, soprattutto perché  l’invasione pacifica e pittoresca sembra aver dissacrato ogni “segno” legato alla montagna; esclusività, sportività, vita sana all’aria aperta, privilegio del bianco.  Invece arriva Rita De Crescenzo, colorata, grassa, non minimal. “Ci odia tutta Italia / siamo di Napolí / puzziamo di Monnezza Vesuvio lavacì”; “so where are you from / I am from Napoli” canta Rita De Crescenzo, d’ora in poi  nel testo RDC, la Kim Kardashian che ci possiamo permettere, la Bianca Censori de 'noantri. 


Soprattutto perché nel frattempo sciare è diventato causa inflazione e impoverimento collettivo uno sport tragicamente esclusivo. Uno skipass giornaliero costa come un televisore. Noi fascia alta dei morti di fame diciamo "sai, non scio più, ho paura di farmi male", ma mentiamo spudoratamente. Tutti non facciamo che chiederci com’era possibile che negli anni Ottanta le nostre famiglie middle class si potessero permettere non una ma magari due settimane sulla neve (trentina). Andare a sciare oggi è come doveva essere avere un treno privato nei primi del ’900.  Oggi, solo i super ricchi sciano davvero, e lo sanno.  Nessuno è più capace, saper sciare oggi è come saper andare a caccia col falcone; così gli influencer e i loro seguaci andranno piuttosto alle terme (possibilmente Qc terme, c’è la neve e anche l’acqua e il risultato instagrammatico è alla fine lo stesso); andare a sciare è davvero l’ultimo baluardo contro l’overtourism ed è per questo che ha fatto infuriare la signora Covelli – la borghese ferocemente orgogliosa delle sue prerogative sciistiche  – collettiva che è in noi. E’ arrivata RDC, creatura post post qualcosa, Torpigna 2.0, che ci “interroga” tutti – oggi nelle fascette dei libri c’è sempre un “interroga”. 

 

L’altra questione del caso Roccaraso (vabbè) è che RDC rappresenta il rimosso napoletano di questi anni. In questi anni in cui abbiamo disimparato a sciare, infatti, è stata lei, Napoli, a essere invasa da noi nordici.  Oggi qualunque signora di Bergamo e Busto Arsizio sa la differenza tra babà bagnato e no, sa che si dice pizza “con le scarole”, si vanta di conoscere il Vomero che considera però alla stregua di via Montenapoleone, tanta è l’enfasi, e non quel Re di Roma pieds dans l'eau che è. Comunque è chiaro: oggi siamo tutti leoni da pastiera. Sul Financial Times del fine settimana, in un catalogo di bizzarrie esotiche (un nuovo museo in New Mexico e una crociera di design sul Nilo) c’era una interessante intervista a tale Nathalie de Saint Phalle, dinastia millenaria, vedi la Niki che a Capalbio fece il Giardino dei Tarocchi, dunque vero radical scicchismo. La Saint Phalle minore vive in una “torre aragonese” nel centro di Napoli, denuncia di non “avere mai avuto un cellulare in vita sua", “in frigo tiene solo cioccolato”, per le alte temperature di Napoli (tipo Cuba) e poiché “non ama cucinare”, e si lamenta anche lei dei turisti che scendono a Napoli solo per mangiare mentre “un tempo mi chiedevano informazioni sui Caravaggio, oggi sul cibo”.  Qual è il modo migliore per spendere 20 euro, le chiedono i pregnanti intervistatori con domanda standard. Lei risponde: comprare una bottiglia di vino e invitare qualcuno; insomma, non andare a Roccaraso col pullman.

 

Leggere il Ft a Roccaraso sarebbe però un titolo anche mica male. O su Italo andando al Vomero: del resto qualunque treno ad alta velocità che va verso “giù” è zeppo di signore riflessive con in mano un Elena Ferrante a caso e nel cuore Parthenope e un consiglio dove mangiare: da Concettina ai tre Santi o all’Europeo? Da Cicciotto o al Faretto a Marechiaro? Napoli è appunto “Amica geniale”, riscatto (il documentario della moglie di Sting secondo cui i Quartieri spagnoli son molto meglio di New York), cultura e tanta tanta biodiversità. 

 

Troppo bello per essere vero. Infatti quando meno te l’aspetti salta fuori invece Napoli com’era, lo stereotipo micidiale, e le raccomandazioni di quando eravamo bambini: “via gli ori” e “nascondete gli orologi” (ma oggi tutti i ladri di orologi si sono trasferiti a Milano, si sa). Ogni tanto l’ombra napoletana viene fuori ancora, nei più insospettabili milanesi inclusivi: “Ah che bello, sei cresciuto a Napoli. E dove hai studiato? Ah – rimangono scioccati alla risposta: a Napoli – ma c’è anche l’università! Top”. Insomma vien fuori quel misunderstanding sul nostro Messico domestico conseguenza dell’overtourism interno dell’epoca covidica, quando milanesi e padani scoprirono Roma e anche più giù, sentendosi tutti delle Karen Blixen avventurosissime. A Napoli si sta benissimo, si mangia benissimo, si ingrassa un poco, sostengono tutte le signore non sul pullman ma sull’Italo prenotato anzitempo, col pacchetto sconto e il pacco da giù. Però, che adesso i Torpigna, pardon, i napoletani, sciino pure, questa sembra francamente un’esagerazione.   

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).