Terrazzo

Rovagnati, Parmacotto e la disfida emiliana del prosciutto

Michele Masneri

Forse era un’altra Italia, meno feroce, di sicuro senza social, ma il risentimento doveva esserci pure allora. Parliamo della morte elicotteristica del re dell’insaccato Rovagnati. Che fa venire in mente ricordi ancestrali, madeleine suine che si erano dimenticate e riaffiorano come colesterolo nel sangue: così ecco che a un certo punto, quando questi geniali imprenditori scoprirono come nobilitare il “cotto”, prima cibo per muratori, per schiscette e rosette, e poi invece  prosciutto che per la prima volta osava dire il suo nome, e anche il suo cognome: Rovagnati, appunto. Ma non fu il solo, anzi ci fu una vera e propria guerra di spot con l’altro brand dell’insaccato aspirazionale, Parmacotto. Questo utilizzava massicciamente grandi star, e ci ricordiamo le pubblicità con Christian De Sica salumiere piacione con moglie buzzicona  e ancor più quello con Sophia Loren nella meta-pubblicità in cui va “off script” e con una sola parola: “accattatevill”, convince tutti, quando ancora Napoli non era di moda peer gli influencer “con mollica e senza”. 

 

Invece, la Rovagnati, brianzola di nascita, parmigiana d’elezione, addirittura col castello (maledetto!) acquistato dalle ultime generazioni, castello per umani e porcelli gentilizi, puntava su più sobrie e meno dispendiose réclame (“crudo o cotto? Gran Biscotto”) oltre alle televendite con Mike e la affettatrice sempre in funzione come ha ricordato in questi giorni il regista Mario Bianchi. 

 

Certo quella di Rovagnati è una storia di geniale made in Italy e anche di sinergie, con la timbratura a fuoco che prima era prerogativa feudale del crudo di Parma, e la affettatrice a manovella Berkel rossa, sogno di ogni cumenda, status symbol che soprattutto al nord alligna nelle migliori cucine, simmetrico della Testarossa in garage, veniva ilevata e risanata (l’azienda Berkel) dai fattivi Rovagnati. Che poi avevano investito anche in Pineider, marchio di sofisticati cartoncini e penne che meno ovviamente si conciliano col suino ancorché castellano, e che prima erano stati assorbiti dal furbetto bresciano della finanza Chicco Gnutti. 

 

Però oggi mentre il lusso crolla, mentre la moda vacilla, mentre gli stilisti finiscono al mattatoio, forse meglio puntare sui prosciutti come made in Italy. Acqua di Parma? Meglio ancora, prosciutto di Parma: e lì, Parmacotto ebbe grandi “visioni” e crac. Fondata nel ’78, aveva alla guida un imprenditore illuminato, Marco Rosi, che a un certo punto finanziò anche i restauri della cupola di San Giovanni Evangelista di Correggio negli anni ’90, fu un evento, e accorsero tutti. Pier Vittorio Tondelli e Alberto Arbasino, che scrisse un testo (oggi Electa) per i restauri. “Parmigiano, culatello, affettato?”, si chiede Arbasino parlando della stupendezza del Correggio (“fra madonne e lambruschi, sopra o sottovalutato?”).

 

I due gruppi si fecero come si disse guerra pubblicitaria: Rovagnati esordisce nell’etere il 13 gennaio 1991 con la televendita alla “Ruota della Fortuna” con Mike. “Per la prima volta mi occupo di prosciutto. Rovagnati: questo è un nome molto importante che dovete cominciare a mettervi in testa! Sono da tenere in salotto da come sono belli” dice guardando fisso in macchina.  Il regista Bianchi ha raccontato al Corriere come la affettatrice tagliasse ad libitum per tutta la durata del programma, per poi sommergere lo studio di affettato e afrore.  Poi nel ‘93 “Rovagnati sapori di famiglia” con una specie di cortometraggio da Orient Express,  poi testimonial come Natasha Stefanenko e poi Gino Bramieri e soprattutto “No me gusta un crudo, no me gusta un coto” del 2000, dove un’improbabile spagnola, con suonatori di mandolino, irrompe in una salumeria, chiaramente sull’onda del “Ciclone” di Pieraccioni.  “Me gusta solo Gran Biscotto”. Ah, come si stava bene.  Che anni. Che prosciutti. 

 

Rovagnati puntava su un’immagine più popolare, mentre Parmacotto pensava in grande appunto con De Sica e Loren e pure una prosciutteria a New York. Intanto la guerra diventava anche legale. Nel 2004 la Corte di Cassazione stabilisce che il marchio Parmacotto non fa concorrenza sleale al prosciutto cotto Rovagnati, con sentenza numero 6080.  Nel 2014 però  Parmacotto va in fallimento, e sembrava la seconda  puntata della maledizione della “Food valley” dopo la Parmalat. Oggi, il risanamento.  

 

Però anche recentemente  sui social si insufflano gialli e forse “gombloddi” contro la élite suina italiana: non solo Rovagnati;  con un delitto colposo e la lady del prosciutto Livia Ferrarini che l’8 novembre scorso viene trovata più prosaicamente schiacciata dal proprio trattore ad Albinea, nel reggiano (e in un vecchio test di Dissapore, proprio Ferrarini vinse la disfida prosciuttistica italiana). 

 

E dopo gli assaggiatori ci dovrebbero essere gli sceneggiatori già al lavoro, con un commissario o commissaria che risolve delitti tra grassi polinsaturi nella Motor Valley.  Si dovrà forse tornare al “Gialloparma” dei delitti che tanto vendevano negli anni Duemila, di quell’Alberto Bevilacqua malconsiderato all’epoca ma che oggi avrebbe il Nobel? Naturalmente indagherebbe il Ris di Parma, a km zero.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).