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Terrazzo

100 anni di New Yorker, tra vignette e borsine

Michele Masneri

Il settimanale più snob nel mondo compie cento anni e con esso si compie un secolo di storia di carta stampata. Segreti e tote bag di un mito editoriale

Certo sembra uno sketch, i 100 anni del settimanale più snob nel mondo nel momento in cui già leggere e scrivere e fare divisioni a cifra singola sono considerati sinonimi del più infido “woke”. Nel 1925 Harold Ross, fondatore del New Yorker, immaginò un  magazine di “wit, reportage, fiction, arte e critica”. Hai detto niente. 


Ma forse non lo leggeva nessuno già  all’inizio come pure negli anni d’oro perché il New Yorker, come “virtue signaling”, o status symbol, bastava averlo, e lasciarlo a caso in macchina o in auto come Internazionale da noi, pregiatissimo magazine aspirazionale pur basandosi su vecchi articoli letti qualche settimana prima da chi sa le lingue, oppure Limes che qualcuno pronuncia laims come i pregiati limoncini (ma il sublime fotoreporter Paolo Di Paolo già ci confessò che pure “Il Mondo”, leggenda giornalistica di pari livello alle nostre latitudini non lo leggeva nessuno, ma era assolutamente da tenere sul cruscotto della macchina, perché si cuccava tantissimo). Certo, nello stesso anno della fondazione del New Yorker Luigi Albertini, dinastia non meno chic dei Newhouse della Condé Nast, fu cacciato dal Corriere, e prese il suo posto il fascistissimo Ugo Ojetti, per dire le differenze. 


Le celebrazioni del centenario adesso prevedono un numero speciale, una mostra alla New York Public Library con manoscritti rari, una rassegna di film tratti da reportage comparsi sul giornale (da “A sangue freddo”  a “Brokeback Mountain” a “Quarto potere”), un documentario, e poi naturalmente un’altra mostra sulle copertine mentre da noi è pronta la fiction su “Miss Fallaci”. Secondo il rivale New York Magazine forse ci sarà anche l’annuncio di un ricambio al vertice dopo il quarto di secolo di regno di David Remnick. E se fino a qualche tempo fa si pensava che mai e poi mai un maschio bianco avrebbe potuto  prendere quel posto, adesso si pensa che la maschiezza e la bianchezza siano il minimo sindacale, e figure wokiste tipo la brava saggista american-filippina Jia Tolentino - addirittura mezza canadese! - non paiono più papabili (ma da noi, che il woke non è mai arrivato o è rimasto bloccato in dogana, che si farà? Solito problema).

 

Remnick è anche responsabile della vera rinascita del giornale, che dal 2014 regala agli abbonati una “tote bag”, una borsina di tela, con la scritta "The New Yorker" bella grande, oggetto supremamente status symbol di per sé:  non necessariamente del New Yorker, ma dell’Adelphi, di qualche altra casa editrice, di qualche festival indie, da esibire, come il giornale da lasciare lì da qualche parte. Il merchandising  è la risposta del resto alla smaterializzazione del giornale e  la borsina di tela ha contrastato il crollo delle vendite arrivato con Internet, perché un giornale-status,  se nessuno sa che lo stai leggendo, soprattutto in movimento, sul tuo telefono, che status è? Ecco dunque l’idea veramente geniale. La borsina, per darvi un’idea della sua strategicità, è in omaggio con l’abbonamento che parte da 52 dollari l’anno, ma si trova da sola in vendita su siti di seconda mano a 65 e quella del centenario sul sito del giornale viene 50.

 

La “tote bag” del resto fa sapere agli altri che sei un cittadino urbano, che legge, di sinistra, anche se c’è il problema ambientale, ci sono troppe tote bag in giro, il cotone con cui vengono realizzate è “water intensive”, riportava un vecchio articolo del New York Times, secondo cui ormai ognuno di noi se di sinistra e lettore è pieno di queste borsine, il New Yorker ne ha smerciate da solo oltre 2 milioni, e l’articolo era di quattro anni fa! E forse il giornalista non era mai stato a un Salone del Mobile o a una Biennale!  

 

A proposito, la seconda borsina del New Yorker sono gli eventi, nell’epoca in cui i magazine sono  ormai diventati brand (vedi i marchi-magazine radunati a Sanremo nei giorni scorsi, ognuno col suo party e il suo “digital”) e infatti il festival del New Yorker, in autunno ovviamente a New York, autodefinito “tre giorni con la gente più interessante del mondo”, è uno dei più ambiti.  Ma non è colpa di nessuno questa trasformazione: non è colpa di nessuno se prima della tv, per non parlare di Internet, per pubblicizzare qualunque oggetto o servizio in vendita ti toccava stampare su carta, e siccome non si poteva fare un giornale solo di pubblicità quella pubblicità finanziava anche giornalismo in questo caso “di qualità”. 

 

Come tutti i manufatti stampati il New Yorker è andato in crisi ma come tutti i manufatti stampati in lingua inglese è sopravvissuto smaterializzandosi, le riviste ormai sono come marchi di moda che in altri tempi avrebbero fatto pubblicità su riviste (ma oggi non ci sono più, dunque postano da sole su Instagram): nel 2023 ha licenziato 300 persone ma continua ad avere oltre 1 milione di abbonati paganti e soprattutto riceventi borsine.  In una classifica di presentabilità sociale, la borsina del New Yorker è il simmetrico di una canzone di Cristicchi. Ma vale anche il contrario: in molti meme tiktokisti compare la scritta: “sono a sciare a St. Moritz, non ci sono comunisti, né borsine di tela, sono felice e lo so”. 

 

La terza borsina del New Yorker dopo le vere borsine e il festival sono poi le vignette, eleganti e che generalmente non fanno ridere ma che ripostiamo famelicamente su Instagram perché dimostrano che sappiamo l’inglese e siamo gente di mondo  (e non serve nemmeno pagare l’abbonamento).  Su Npr, la radio pubblica americana, bastione della sinistra, e che immaginiamo verrà presto smantellata dai vari Doge, nel lontano 2009 l'autrice Linda Holmes confessava a malincuore il suo tormento: ci ho provato in tutti i modi, ma le vignette del New Yorker non mi fanno proprio ridere. Ma su Quora, l’unico magazine che sopravviverà a Trump, uno Stanley Wigglesworth risponde: “è voluto che non facciano ridere. Non sono fatte per farti ridere, semmai per riconoscere in te una certa sensibilità e congratularti con te stesso per questo”. 

 

Nella pericolante Condé Nast, impero un tempo simbolo di riviste plurivendute, oggi una specie di Iri anni Ottanta prima delle privatizzazioni, il New Yorker continua ad andare abbastanza bene, ad essere il panettone artigianale delle riviste. Adesso chissà chi sarà il prossimo direttore, ma non interessa veramente a nessuno. Nell'unica egemonia culturale d'oggi, quella dello screenshot (nessuno legge alcunché, semmai, se proprio va bene commenta le foto di articoli postati da altri)  nessuno saprebbe distinguere un panettone artigianale da uno Motta: però la  borsina dev’essere di prima qualità.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).