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(Ansa)
Terrazzo
Torino a colori. O meno nebbiosa di Milano. Mostre, premi, aria frizzante
Il primo museo di arte contemporanea italiano del Castello di Rivoli e il premio Merz in quella che si fregia di essere "l'unica città europea" che cerca di attrarre ricoprendo di miele la circonvalla esterna, con i suoi tentativi di essere centro italiano di tutto quello che può attirare gente
Dopo aver visto prima Firenze e poi Roma rubargli l’etichetta legittima di capitale del regno, Torino ci riprova con la scena artistica, come nei suoi anni d’oro del poverismo, di Margherita Stein, di Sperone, e dell’Avvocato collezionista. Sotto la torre di Melis de Villa si vocifera di un’alleanza tra le varie realtà dell’arte contemporanea per un calendario, che sfocia in Artissima, per competere con il sistema week di YesMilano. Quella che da tempo si fregia di esser “l’unica città europea”, che cerca di attrarre ricoprendo di miele la circonvalla esterna, ormai sta antipatica a tutti, con i suoi tentativi di esser centro italiano di tutto quello che può attirare gente di LA e Tokyo e Londra (moda-cultura-editoria-design-mostre-food…). Ingordigia meneghina che fa scattare la competizione.
Dopotutto il primo museo di arte contemporanea italiano è quello del Castello di Rivoli, su nella collina da cui si vedono le Alpi e Torino. Castello che festeggia quarant’anni con una mostra specchio di quella dell’84, l’Ouverture, con vecchie glorie ormai permanenti – Sol LeWitt, lo specchio di Pistoletto in una delle grandi sale dove ci si fa anche yoga per la terza età, il cavallo appeso di Cattelan, i video di Pierre Huyghe – e new entry come i bellissimi pani di Zhanna Kadyrova, venduti al chilo per aiutare gli ucraini feriti e, nella manica lunga la mano nell’albero di Penone che col tempo è stata mangiata dalla natura.
Tutto in quella che doveva esser la Versailles dei Savoia, bloccata poi per usare i fondi per la guerra. E poi, altra prerogativa torinese, il premio Merz, che un po’ come i Golden Globe che portano agli Oscar, che aiutano a potenziare carriere. E infatti l’ultima vincitrice Yto Barrada alla prossima Biennale veneziana rappresenterà la Francia. Con la sua mostra nell’ex centrale termica della fondazione Merz, Barrada che si divide tra il suo giardino ecofemminista di Tangeri e la sua casa a New York, si diverte a trasformare in arte quello che i genitori devono subire leggendo Uppa, partecipando ai pomeriggi aperti all’asilo e ascoltando i podcast delle “mamme di professione”.
Il diktat montessoriano diventa opera, i cubi da impilare scultura, i rimandi a Frank Stella e Marisa Merz usati come modello, i quadri patchwork di stoffe occasione per ragionare sullo spettro del colore (la stoffa è tinta a mano con le erbe raccolte dal giardino di Barrada, in Marocco). Tagliare e colorare scatole di corn flakes per farci i fiori nei lunghissimi pomeriggi Covid, raccogliere il costume-onda di cartone di una manifestazione ecologista di New York e appenderlo, tutto diventa opera. E poi gioco con la memoria – non nel senso di Boltanski ma di mnemotecnica educativa – con i poster divertenti con le frasi usate nelle scuole per imparare le informazioni: Never Eat Soggy Waffles (North East South West, i punti cardinali) o Roman Men Invented Very Unusual X-Ray Guns (lo spettro elettromagnetico: Radio waves, Microwaves, Infrared wave, visible light, Ultraviolet, X-ray e Gamma rays). Tutto molto arioso, giocoso, simpatico, con quella sfumatura di critica sociale – immigrazione e clima – che forse ha ancora più forza quando è mascherata dai colori pastello.
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terrazzo
Ricominciare da Tirana
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