Foto LaPresse

Terrazzo

Donatella Versace, sorella d'Italia

Michele Masneri

Vita e opere della stilista, l'ultima icona pop che il nostro paese abbia creato 

Non c’è solo Giorgia Meloni che non si presenta al meeting coi potenti milanesi della moda, sicuro per cause più urgenti ma  ritenendo forse che non val la pena  star a sentire  un indotto fru fru che vale 75 miliardi di euro, pari al 5 per cento del pil (poco meno dell’edilizia, e però per i facitori di abitucci  mai un incentivo o superbonus). C’è pure che nessun grande giornale abbia dedicato le  paginone che si meritava all’addio di Donatella Versace. DV come si sa  lascia il gruppo dal fratello fondato, poi dopo varie vicissitudini finito a  tale Capri Holding, infine forse conquistato da Prada (si saprà nei prossimi giorni). Non sarà più la capa, ma solo una vaga “brand ambassador”. Però, intanto, DV rimane forse la nostra vera unica stella in un paese con lo stellone ma notoriamente sprovvisto di star system (“politics is show business for ugly people, la politica è lo show business dei brutti”, diceva uno che se ne intendeva, Gore Vidal).  

 

L’Italia non è  brava a fare i poli del lusso né a glorificare i propri talenti, dunque eccoci in ritardo, dopo Times di Londra e un po’ tutti i giornali internazionali, a glorificare quella che è stata forse l’unica vera star se intendiamo qualcuno capace di entrare nella cultura popolare mondiale, qualcuno di cui ci appassioniamo insomma ai mutamenti, bionda, magra, più magra. Qualcuno di cui ci riguardano i  rifacimenti estetici, le pose “iconiche” quando per una volta non è esagerato l’aggettivo. Anche, storia da romanzo, bambina-sorella che mai più avrebbe pensato d’essere destinata al comando, una specie di Regina Elisabetta che a un certo punto causa  morte tragica del fratello prende in mano lo scettro e la corona. 

 

Oggi quasi settantenne con 12,2 milioni di follower, DV è stata fondata il 2 maggio del 1955 a Reggio Calabria, quarta di tre fratelli: Santo  nel 1944, Gianni nel 1946 e la primogenita Tina, che morì a 12 anni per un’infezione da tetano presa sbucciandosi un ginocchio. Donatella nasce tre anni dopo: “ero la piccola della famiglia, ero così viziata, ero la bambina meglio vestita di tutta la città” dirà in un gran ritrattone-intervista del New Yorker nel 2007. 

 

Famiglia benestante, non il solito sud con la  retorica del Mezzogiorno irredimibbbile, DV come è chiamata, era ed è “a kamikaze blonde in black leather and stilettos”, lasciamo in lingua originale perché pare più efficace, sempre il New Yorker.  Un po’ Barbarella un po’ Pamela Anderson, sospesa dal liceo a 14 anni perché portava l’eyeliner (succedeva, una nostra zia ebbe la stessa pena per il rossetto, a Brescia), poi laureata in lingue all’università di Firenze, poi entra nel gruppo che il fratello ha fondato a Milano, dove prima fa un po’ di pierre, poi la sbattono a disegnare Versus, la linea “facile” del gruppo, quella che sarebbe una specie di equivalente di Miu Miu, la linea macina-utili da cui proviene il suo successore oggi, lo stilista Dario Vitale. 

 

Unica italiana mai parodiata  nel Saturday Night Live, cameo in “Zoolander”, figura naturalmente nei Simpson, proclama: “non posso fare yoga perché richiederebbe di stare zitta e io non ne sono capace”. Alleata dei diritti Lgbt, fotografata con Jennifer Lopez o Dua Lipa o con Cindy Crawford, Naomi Campbell, Christy Turlington e Claudia Schiffer riunite per ricordare quel 1991 fatale in cui lei, proprio lei, decidendo di strapparle al videoclip di “Freedom” di George Michael (regia di David Fincher), le buttò in passerella,  e di lì nel mito.  

 

Ancora, immortalata in un ruolo che non avrebbe mai voluto da Penélope Cruz in “American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace”, e nella canzone "I am Donatella" dell’amica Lady Gaga. A Villa Fontanelle, la dimora “proustiana” sul lago di Como (mentre quella floridiana era “la casa di Batman”), il telefono fisso (sì, era l’epoca dei telefoni fissi) aveva dei tasti preimpostati: “New York-Casa. Miami-Casa. Milano-Casa. Elton Woodside. A. Wintour. Avedon Studio” 

 

E poi ancora i capelli platinati, la pelle carbonizzata dal sole calabro o losangelino, la voce roca per le millemila Marlboro rosse e l’inconfondibile accento, e la cocaina, la magrezza, la depressione. A un certo punto, “Elton said, ‘Donatella, you know what, we’re not forcing you, but you need to go to rehab. There is a plane waiting for you.’”. Un aereo che ti aspetta, con Elton che spinge. E quando mai succede nelle nostre cronache dove al massimo si intervistano la nipote di Yvonne Sciò che ha scritto un prezioso memoriale… o il cugino di Toto Cutugno che racconta di un flirt in Abruzzo o un breakdown in Molise. E ancora, la stella scolpita nell’asfalto a Rodeo Drive, e il tailleur pantalone celeste e zeppe al ricevimento del Quirinale il 2 giugno con la crocetta di Grand’Ufficiale data da Mattarella l’anno scorso (ma poco filata, tra sottosegretari senza portafoglio e mezzibusti Rai).

 

Poi nel 1997 annus horribilis per la casa e la cultura pop, con la morte di Gianni, lo shock, la salma rimpatriata con Silvio Berlusconi che presta il suo Gulfstream V, all’epoca uno dei pochi a vantare l’aero che poteva fare Miami-Milano senza scalo. Il funerale in Duomo è forse il meglio frequentato del secolo che si chiude, con lady Diana che piange accanto a Elton John, tornando apposta dalle scapestrate vacanze con Dodi Al Fayed, senza sapere che di lì a poco lui canterà per lei ad altre più alte esequie. E pure Carolyn Bessette Kennedy, altra stella dei Novanta, che due anni dopo cadrà volando verso Martha’s Vineyard.  

 

Basta, vogliamo la serie, la Gattoparda. Soprattutto oggi, nell’èra degli stilisti-commodity, dei direttori creativi usa e getta. E poi, se davvero andrà in porto la fusione con Prada, che clash culturale, la sciura Miuccia con le sue gonnelle a pieghe e il calzino e il dottorato di ricerca sul Partito comunista italiano. Certo, meno meduse dorate, meno Marlboro rosse, però tanti aerei ed elicotteri anche lì. E  pare che si stiano pure molto simpatiche. 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).