
Foto ANSA
Terrazzo
A Bilbao l'omaggio a Gehry lo fa l'IA
L'instalazione ambientale di Refik Anadol è stata concepita con un’intelligenza artificiale addestrata in California. Una modalità alternativa e ultracontemporanea di riconnettersi al passato, fra stupore, contemplazione e qualche dubbio
È un’associazione improvvisa di cui un po’ ci vergogniamo, ma che comunque decidiamo di condividere con chi ci sta vicino (una risata complice come risposta, per fortuna non siamo i soli a fare certi pensieri): ma non sembra la bella copia di Kim Jong-Un? Volto pacioso e capello arruffato all’insù, nel suo abbottonatissimo look “total black” Refik Anadol ci appare – e davvero non ce ne voglia – come la versione bonaria e intellettualmente accettabile del temibile leader nordcoreano.
Davanti alle telecamere, è impegnato a spiegare senso e genesi di quanto si muove attorno a noi, una fantasmagoria di forme mutanti e ammalianti che ricoprono per intero questa sala alta 16 metri del Guggenheim Museum di Bilbao. Ad avvolgerci è “Living Architecture: Gehry”, installazione ambientale frutto di un anno di intenso lavoro, che Anadol ha concepito assieme a un’intelligenza artificiale addestrata in California (lui è nato a Istanbul nel 1985, ma da anni sta a Los Angeles, dove dal 2014 ha sede lo studio che porta il suo nome); mesi e mesi di “training” durante i quali il massimo rappresentante dell’arte generativa ha sfamato la bestia dandole in pasto informazioni, immagini, suoni e materiali d’archivio dell’iconico edificio firmato dall’archistar Frank Gehry. La restituzione visionaria della macchina cattura il visitatore declinandosi in coinvolgenti composizioni visive e sensoriali (ce n’è pure per l’olfatto, da sperimentare): “Sono i suoi sogni”, dice Anadol, “e in questi otto mesi (l’esposizione dura fino al 19 ottobre, ndr) cambieranno sempre, in continuazione”.
Stupore, contemplazione; e pure – poco dopo – qualche dubbio, del tipo: quanto di questa “esperienza” ci rimarrà dentro, una volta usciti dal museo? E’ una modalità alternativa e ultracontemporanea di riconnettersi al passato che il suo artefice ha già sperimentato un paio di anni fa, a Firenze e a New York: nel primo caso (“Renaissance Dreams”, a Palazzo Strozzi), alimentando l’algoritmo con opere artistiche e letterarie prodotte tra il XIV e il XVII secolo; nel secondo (“Unsupervised”), condensando e reinterpretando l’intera collezione del MoMA. “The artist is present”, dice, parafrasando il titolo di una performance di Marina Abramović per rivendicare il proprio ruolo: l’uomo c’è, è sempre presente, e quello che ammirate è il frutto di una collaborazione molto “fair”, 50 e 50, tra artista e computer.
Ad accompagnarlo, Juan Ignacio Vidarte, al suo ultimo opening: sempre elegante e misuratissimo, il direttore generale (69 anni) sta lasciando le chiavi dell’astronave a Miren Arzalluz (47 anni, nata a Bilbao anche lei), in carica a pieno titolo a partire dal primo aprile. Vidarte è qui da sempre: sono passati 33 anni da quando le istituzioni basche gli affidarono la realizzazione della sede spagnola del museo newyorkese – poi inaugurata nel 1997 –, un’impresa e un successo indissolubilmente legati alla sua figura. Refik Anadol lo ringrazia, lo abbraccia di slancio e dà appuntamento a tutti a Los Angeles per il grande traguardo: Dataland, un nuovo museo – se questo termine avrà ancora senso – interamente dedicato all’IA. Lo dice incrociando le dita, dovrebbe aprire a settembre.