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Terrazzo

L'arte sullo scaffale del supermercato

Giulio Silvano

Prodotti colorati e giocosi, nomi sbarazzini e location estremamente decorate. Un libro “non autorizzato” racconta l’estetica di Trader Joe’s, l’Esselunga d’America 

La società americana, ancora più di quella europea, può essere categorizzata in base al tipo di supermercato che preferisce. C’è ovviamente Walmart, il titanico paradiso dei redneck dove vendono tutto dal latte ai fucili, c’è Costco, famoso per le sue confezioni formato gigante e i suoi hotdog a prezzo calmierato, c’è Whole Foods, fighetto, salutare e caro, ma mai costoso come Erewhon, amato dalle Kardashian e dalla crowd di Beverly Hills, dove una bottiglietta d’acqua arriva anche a 26 dollari. 

E poi c’è Trader Joe’s, meno lussuoso di questi ultimi due, ma più sofisticato dei primi. Il suo fondatore lo immaginava per “musicisti classici e giornalisti, e per gli intellettuali sottopagati”. Con un suo carattere ben distinguibile e i cassieri in piedi col grembiule che ti trattano come un amico di vecchia data, vende quasi solo prodotti col suo marchio, tutti un po’ simpatici, colorati, giocosi. Popcorn gusto cetriolini, kombucha, gnocchi di cioccolato, biscotti al mango, marmellata aglio e cipolla. Tutti con nomi sbarazzini, che ti sembra quasi di comprare dei giochi e non di far la spesa. Ma soprattutto quello che distingue Trader Joe’s da ogni altro supermarket è il decor. Ogni location, così come ogni singolo pacchetto, è estremamente decorata, con clash cromatici ed estetica da tatuatori hipster primi anni 2000, con eco da vecchi dagherrotipi vittoriani, da riviste anni ’20 e da arte primitiva da Biennale.

Ora Julie Averbach, che a Yale aveva fatto la sua tesi di laurea proprio sulla catena di supermercati, ha dedicato un libro “non autorizzato” sull’arte presente non solo sulle scatole di cereali o sui barattoli di burro di anacardi, ma sui muri e sui cartelli e sulle porte dei bagni di Trader Joe’s. Se il turismo da supermercato è il nuovo viaggio antropologico, con Trader Joe’s diventa anche Grand Tour. Tutto è galleria, compri uno snack e nello stesso momento visiti questo nuovo Moma folk, evoluzione esperienziale delle zuppe di Warhol. Come mostra The art of Trader Joe’s ogni negozio è diverso – lei li ha visitati tutti e 160! – e per ogni store si chiamano artisti locali a fare murales e graffiti. E ognuno ha una sorta di “artista residente” per decorare i cartelli coi prezzi. Ma Averbach ha anche cercato l’origine di alcune immagini sul packaging. Ad esempio, sul caffè french roast c’è un’immagine tratta da un libro su Parigi del 1913. Su una ceasar salad già pronta c’è una rappresentazione dell’Augusto di Prima Porta. Ritratti ottocenteschi e animali surrealisti che finiscono sui volantini con gli sconti, tatuaggi indiani che arrivano sulla giara di chutney allo zenzero, trompe l’oeil per pubblicizzare il granoturco che riprendono le vetrate di Notre Dame.

“Penso che Trader Joe’s sia la Disneyland dei supermercati americani”, dice l’autrice. In Italia la faida Coop-Esselunga più che estetica diventa politica e da una parte abbiamo i disegni di Nicoletta Costa sugli omogenizzati, dall’altra l’ancora insuperabile campagna prodotti freschi (Mapoleone, John Lemon, Pompelmo Tell, Al Cacone…). Forse il capitalismo è anche questo, togliere il grigiore dai non luoghi e dare l’illusione che mentre stai spendendo 3 e 99 per un pacchetto di popcorn alla menta piperita stai godendo dell’esperienza artistica.