
Terrazzo
Al Salone del Mobile vento gelido e paura dei dazi. E Giorgia Meloni per la prima volta assente. Reportage
Mentre affondano le Borse, giro tra gli eventi e la Fiera della Sessantatreesima edizione. Flos: dai dazi Usa per noi 1 milione di danni
E allora si riparte, 63esimo Salone del mobile e anzi Design Week, che riapre oggi con il solito (ormai da due anni) crollo delle temperature: dopo i venti gradi del weekend ecco il gelo da Groenlandia trumpiana che coglie i turisti muniti di pass stampa nel fine settimana e di lunedì con sciarpa congelata tipo Fantozzi. Quest’anno almeno non ci sono le trasferte verso Venezia e la concomitante Biennale (anche se sono molte le anteprime, le mostre da Pinault, le inaugurazioni delle nuove fondazioni, e alcuni fanno sapere che andranno in laguna, forse sperando che li si noti di più). Quest’anno per la prima volta da quando è premier al Salone non verrà Giorgia Meloni, fanno sapere, presente invece nel ’23 e ’24.
Ha il suo daffare. Sensazione vagamente da Titanic, del resto, a Milano, mentre affondano le borse, e se il dito medio di Cattelan rimane retto in Piazza Affari sembra che un globale dito medio indirizzato a tutto, anche al design e al made in Italy, si sia alzato da Mar-a-Lago via Wall Street. In Stazione Centrale, arrivando dalla capitale coi soliti ritardi (e anche, nel nostro caso, con banda di maranza fatti scendere d’imperio a Orte, con ulteriori ritardi), per provare un brivido di “come eravamo”, ecco il lussuoso treno Arlecchino, puro anni Sessanta by Gio Ponti, sede dei talk di “Prada Frames”. Si passa dall’Alta velocità malmessa e dai ritardi cronici ai velluti rossi e verdi e alle linee architettoniche del “royal pavilion” con entrata laterale da via Ferrante Aporti che era poi l’ingresso di Re e Regine (altro che le lounge di oggi). Tra i marmi e le tartine, talk imprescindibili, curati dal duo Formafantasma, photo opportunity, su questi treni già veloci sul Roma-Milano e con saletta belvedere (e vengono in mente le ragazze che investivano su un biglietto di prima classe per farvi incontri giusti in “Parigi o cara”, il film di Vittorio Caprioli con Franca Valeri).
Questo sontuoso treno Prada ci vorrebbe per raggiungere l’altra fondamentale destinazione del Salone che è Alcova, cioè il geniale format inventato qualche anno fa, che consiste nel trasformare edifici cadenti e fascinosi in saloncini per esporre oggetti di design. Successo enorme con filiali anche in Florida (pre-Trump) e quest’anno, takeover completo sul paese brianzolo di Varedo, dove una villa Borsani (sorta di Necchi Campiglio non ancora immortalata da film kolossal), una villa Bagatti Valsecchi e poi ancora delle serre e uno stabilimento Snia (nella foto sopra) vengono disseminate di oggetti e visitate dalle tribù del design (facce d’architetti almeno da Maastricht, capelli biondi, occhi azzurri, salopette, stature da Nord Europa, borse di tela).
Il pubblico longilineo si gode il sole e la possibilità della gita fuoriporta, però arrivarci è un inferno, a Varedo, le TreNord si sa che sono meno affidabili di Trump, il treno Prada appunto era perfetto a collegare questi avamposti. Invece niente. Sensazione poi che i dazi ci siano già: prezzo di ingresso ai ruderi 25 euro, 9 euro la rosetta con mortadella by Panificio Longoni, genere muratore-chic. C’è anche un po’ di lotta di classe in questa Alcova 2025, che doveva tenersi anche nel vecchio centro sociale del Macao, in viale Molise, con proposta gastronomica a menu fisso da 130 euro, ma c’è stata tutta una chiamata alle armi contro la gentrification, anche se il Macao era abbandonato da anni, e non se n’è fatto più niente. Si rimane in Brianza, contessa.
Altra sensazione, che l’oggettistica di questi designer, cinesi francesi baltici e pure guatemaltechi, risalta meglio quando la cornice è proprio franante, come diceva sempre Franca Valeri in “Parigi o cara”: “rustico tirato al fino”: vedi queste serre a Varedo tutte coi vetri rotti giusti, e lo stabilimento Snia distrutto in cui risplendono sculture nuovissime. Nella bellissima villa Borsani anni ‘40, invece abbastanza a posto, viene da dire: togliete tutti i ciaffi, lasciatemi vedere la casa! Clash culturali interessanti, con designer sudamericani forse celebri in patria che camminano per il paesino di Varedo, coi locali occhiuti non capendo se siano pericolosi immigrati da riportare al paese loro (vedremmo benissimo un film di Checco Zalone, sui “location scout” di Alcova in qualche paesino magari calabrese regno del non finito architettonico). Infine, Brianza per Brianza, l’Alcova definitiva che vorremmo visitare è quella di Arcore. Come in “Loro” di Sorrentino, ma il regista quest’anno per la prima volta cura un padiglione della Fiera (che si voglia mettere in concorrenza con l’altro sublime regista-architetto Guadagnino?). A Rho dunque ecco che, dedicato alla lentezza, realizzato con la mitica scenografa Margherita Palli, un napoletano e una svizzera, mettono in scena una “experience” sul concetto di attesa, che pare molto ispirata alla sanità lombarda e forse anche napoletana o in generale italiana. In un guscio rosso, muniti di tagliandino d’attesa, appunto, si viene sdraiati su poltrone semoventi verso un inquietante esame cardiologico (120 slot al giorno, tutto già esaurito, insomma, come in qualunque Asl, anche con convenzione privata).
Al Salone vero e proprio, cioè la vecchia fiera dove ci sono gli stand dei mobilieri, serpeggia di più l’inquietudine. Una colossale magione europea, Villa Héritage, è ricostruita dal francese Pierre-Yves Rochon con foto di Massimo Listri, velluti veneziani e costumi della Callas e simboleggia la grandeur non minimalista del “savoir faire” europeo, un inno ai viaggi e al mondo globale; Rochon è esperto facitore di grandi alberghi in giro per il mondo, tra cui il Waldorf Astoria di New York, “ma con questi dazi non sarebbe più possibile”, dicono al Foglio nella villa. Pure Piero Gandini, presidente esecutivo di Flos B&B, uno dei gruppi “iconici” del design italiano, è molto preoccupato. “Come Flos calcoliamo il danno conseguente ai dazi americani in un milione di euro, ma all’illuminazione va ancora bene. La parte arredamento di B&B verrà colpita maggiormente”, dice al Foglio. “Anche se sono tutte cifre a spanne, stiamo cercando di capire, di fare il punto”. Per le lampade, come la Arco o la Parentesi celebri dei fratelli Castiglioni, “potremo provare a riversare la differenza sul prezzo finale dei consumatori americani, sperando che capiscano l’unicità dei nostri prodotti. Per la parte contractor, cioè forniture, sarà più difficile. Comunque, una bella mazzata. Anche se non come quella che subisce il vino italiano”.
Ecco qua, sulla passeggiata centrale del Salone c’è come sempre il bar di Cà del Bosco. “Noi non siamo particolarmente colpiti”, dice il patron Maurizio Zanella. “Perché esportiamo in America solo il 3 per cento, dunque anche se si dimezzasse, non è una bella notizia ma non è neanche una tragedia. Ma sento molti colleghi invece, che, magari esportando il 30 per cento, sono ben più preoccupati. Anche perché in questi giorni sono chiamati dagli importatori americani che gli dicono: benissimo, noi vi abbassiamo del 25 per cento i prezzi così rimangono come prima. E questo 25 per cento però se lo trovano sul groppone i produttori”. Intanto alla fermata della metropolitana di Rho grandi cartelloni pubblicizzano la Fiera cinese dell’arredamento, “Furniture China 2025”, a settembre. Aldo Cibic, dioscuro milanese del design ora trasferitosi a Shanghai, trova che “il sistema del design italiano andrebbe protetto”. Ma quest’anno Meloni appunto non si presenta, fanno sapere. Cibic si augura che “adesso i dazi americani non colpiscano troppo violentemente la Cina”. Intanto un piatto di pasta da asporto, tra gli stand ancora pre-montati della fiera, viene 15 euro. “Ma c’è uno stellato, se vuole”, mi dicono. No, no, per carità. Dicono anche che diversi alberghi milanesi chiedano un minimo di permanenza di cinque notti, per gli espositori del Salone. Con prezzi anche di 2.500 euro a notte. “Faccia lei il conto”. Insomma, non c’era bisogno di Trump, a Milano i dazi c’erano già, ma non ce n’eravamo accorti.