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Terrazzo
Venezia sfida il Salone del Mobile milanese
Una mostra a Palazzo Grassi dove oggetti comunissimi, da buttare, sono in realtà sculture di marmo e bronzo di Tatiana Trouvé. Verosimiglianza che sconvolge, disorientamento totale
L’ora legale è stata inventata per rendere più lunghe le giornate nella stagione degli opening. Mentre Milano dà il via al Salone, con la sua flotta di furgoni del catering a bloccare le ciclabili, Venezia si riempie di collezionisti. Monsieur Pinault mostra i suoi tesori negli spazi della repubblica marinara riadattati da Tadao Ando. A Palazzo Grassi la mostra La strana vita delle cose, un po’ marché aux puces ragionato e glorificato, dove oggetti comunissimi, da buttare – quella roba che rimane nelle cantine dopo un trasloco, accatastati apparentemente alla rinfusa, abbandonati, lasciati lì dai guardasala su una sedia in pausa caffè, incubo di Marie Kondo – sono in realtà sculture di marmo e bronzo di Tatiana Trouvé. Verosimiglianza che sconvolge. Bucce di mandarino, vecchie scarpe, sacchetti, coperte, scatoloni, mozziconi di sigaretta, fiori secchi, scatolette di fiammiferi, vecchi montgomery, grucce, radio.
Disorientamento totale, con aiuto di specchi – E’ dentro o è fuori? E’ vivo o è morto? E’ natura o artefatto? E’ duro o è morbido? Un po’ un trip che fa pensare alle nostre case piene, e a cosa potrebbe succedere nel mondo se dovessimo scomparire noi umani, di colpo. Confini rotti tra mente e realtà, un realismo magico franco- cosentino certificato dai libri – di marmo – di Ursula Le Guin o Giorgio Agamben, fantascienza e apocalittici. E Le città invisibili di Calvino, ormai manuale del postmodernismo, come la storia inventata dal ligure del ponte di Kublai Kan, dove importa l’arco e non le pietre che lo formano, forse metafora oggi di Venezia. E se gli esseri umani sono fuggiti da Palazzo Grassi, abbandonando le stanze e lasciandosi indietro manufatti polverosi, si ritrovano mutati come mostri o come santoni, come martiri o come pagliacci sofferenti, al di là del Canale, a Punta della Dogana. Lì come un Rodin crucco passato per le bacchettate di Richter, Thomas Schütte nella sua Genealogies mostra tutta la sua carriera tra carta e bronzo e morte. Tutto l’umano che manca di là è qui, fuggito sulla punta del bacino di San Marco, nuovo avamposto dei mostri sopravvissuti. Perché se è umano, è un umano spaventoso, snaturato dalle emozioni.
Le mastodontiche figure invischiate nel fango, incapaci di muoversi, vittime, e dall’altra i crudeli, i colpevoli – come busti romani o come vetri di murano dove passa la luce lagunare primaverile – e poi i predatori su gambe a molla spaventosissimi. I sommersi e gli slabbrati. Incubi per i bambini. E anche nelle opere su carta manifesto della rassegnazione all’orrore, un orso canta nel buio: “Mankind, mankind, not very kind”. E come si fa, in questi tempi, a non rivedere nelle statue di Schütte i Trump strabordanti nella mise da golf o i consiglieri perfidi, anti-olimpici, delle conferenze stampa della Casa Bianca, ma anche l’uomo medio che ascolta i reel a volume alto in treno. Se si cerca ottimismo coccolante non si vada alle mostre, che è come parlare con un saggio presocratico dell’era atomica.