
Terrazzo
Dall'architettura alla scenografia, cosa vuol dire fare Queer
Colloquio con Stefano Baisi, architetto e scenografo di "Queer" di Luca Guadagnino, nelle sale da giovedì
"Queer”, il nuovo film di Luca Guadagnino che esce giovedì nelle sale, è un kolossal sommamente architettonico, tutto girato a Cinecittà come una volta. Lo scenografo, Stefano Baisi, trentottenne, emiliano d’Appennino, è al suo debutto. Ha studiato a Parma e a Milano e lavorato in uno studio lombardo. Poi ha collaborato col Guadagnino-architetto, un’altra delle mille incarnazioni del nostro poliedrico palermitano, e infine è stato spedito a ricreare la sontuosa e disperata Città del Messico in cui va in scena il disastro amoroso del Daniel Craig-William Burroughs-William Lee e del suo amato e ritroso occhialuto twink Eugene Allerton (interpretato da Drew Starkey) sulle orme del romanzo pubblicato oggi da Adelphi.
“Con Luca avevamo fatto due negozi Aesop, la ristrutturazione di una villa storica in Monferrato, e un appartamento a Milano” dice Baisi al Foglio. Solo Guadagnino poteva affidare a un absolute beginner un ruolo del genere (e vincendo alla grande la scommessa). Da Aesop alla casa di Burroughs a Città del Messico è un bel salto però. Com’è stato cominciare col cinema con un film di questo livello? “La sfida è stata molto complessa ma allo stesso tempo è stata una boccata d’aria: ho sperimentato una nuova disciplina che mi ha permesso di esprimermi al cento per cento, e durante tutto il processo, quando invece magari nell’opera architettonica la parte creativa si riduce al venti”. Come avete ricreato la Mexico City romana? “Avevamo una foto dell’ingresso di casa Burroughs. Il resto è ispirato a ciò che ho visto durante un viaggio di sopralluogo. Siamo andati all’indirizzo dove Burroughs viveva e abbiamo scoperto che l’edificio era crollato durante il terremoto del 1985. Ma siamo entrati nella casa dall’altro lato della strada, così le finestre della casa sul set sono ispirate a quell’edificio”. Che invidia. Certo meglio che lavorare sui superbonus.
Era mai stato a Città del Messico? “No, mai. Ci sono rimasto solo tre giorni, ed è stata una folgorazione. E poi abbiamo viaggiato due settimane on the road, prima girando in lungo e in largo per l’Ecuador quindi visitando le città, Quito, Salinas e poi avvicinandoci maggiormente alla giungla amazzonica con Puyo, Shell, Shellmera”. Si chiamano forse così per il petrolio? “Sì, sono un lascito della globalizzazione. La Shell arrivò negli anni Cinquanta, devastò la foresta, poi scoprì che il petrolio non c’era e se ne andò. I villaggi hanno preso il nome dall’azienda. Che noi abbiamo trasformato in ‘Annexia’, il cui logo è una conchiglia tentacolare che compare in alcune scene del film”.
La spiaggia dove arrivano Lee e Allerton in uno dei pochi momenti quieti della loro storia è pure messicana? “No, è in Sicilia”. E la giungla, dove si svolge la seconda parte del film, la più spielberghiana, dove i due vanno in cerca dell’ayahuasca? “Pure quella l’abbiamo ricreata a Roma a parte una sola scena all’Orto botanico di Palermo. Abbiamo scavato una collinetta di materiale di riporto di un centro commerciale che c’è a Cinecittà. Per le piante abbiamo mischiato quelle vere, provenienti da un vivaio siciliano, insieme a quelle finte fatte da un’azienda bergamasca. Il tutto con la consulenza di un botanico che ci ha spiegato quali fossero le essenze originali della foresta ecuadoriana. Insomma un misto tra vero, finto e verosimile, tra foresta sudamericana e italiana”. E le capanne? Quella dove abita la formidabile dottoressa Cotter, una Lesley Manville in versione dottor Livingstone-I suppose, che salva i due sventurati? “Abbiamo cercato di essere fedeli all’architettura locale, ma con una piccola modifica, come se la Cotter avesse portato un suo contributo occidentale a questo tipo di abitazione, che tendenzialmente è open space, invece noi abbiamo creato delle partizioni. Per ispirarci abbiamo visitato alcuni villaggi di nativi, quelli più ospitali, perché non in tutti ci volevano”. Vi hanno cacciati? “No, ma in un caso dovevano venirci a prendere dall’altra parte di un fiume e invece ci hanno lasciati lì”. Sembra sempre più Fitzcarraldo il “making of” di questo film. Guadagnino ha detto che l’ispirazione visuale per questa pellicola è molto pittorica. “Sì, c’è Francis Bacon, ma più ancora forse Michaël Borremans che è questo pittore fiammingo contemporaneo che tra l’altro interpreta un ruolo nel film, il dottore di Quito”. Ah, quello che non vuol fare la ricetta a Craig in astinenza! “Esatto”.
E il bar, che è un po’ il centro di tutto? “Ci siamo ispirati a una nave, alle sale di terza classe del Normandie, il transatlantico che colò a picco da fermo, nel porto di New York, negli anni Quaranta”. Sembra di capire poi che ci sono molti plastici e miniature in “Queer”. A un certo punto Craig nella scena del sogno guarda dentro la sua stessa camera d’albergo. Un doppio sogno, o mise en abyme. “Ci siamo affidati al tedesco Simon Weisse, un’autorità in questo campo, che lavora spesso con Wes Anderson. In 'Queer' ci sono le miniature del quartiere di Burroughs-Lee, dell’aereo su cui loro partono per la giungla e pure diverse altre, che abbiamo tagliato”.
E adesso non vede l’ora di tornare a fare l’architetto a Milano? Ha odiato l’ambiente caciarone romano della settima arte o invece vuol fare solo er cinema? “Grazie a Luca ho scoperto questo mondo e con questo la possibilità di creare mondi che non esistono. Ho partecipato anche al suo nuovo film ‘After The Hunt’, con Julia Roberts, e a un nuovo progetto. Quindi non vorrei proprio tornare indietro, anche se continua a piacermi il design”. Insomma ci ha preso gusto. Ma senta, per finire, sia sincero: è peggio un set gigantesco e incasinato come quello di “Queer” o il Salone del mobile appena finito? “Il Salone del mobile. Il set mi piace, c’è un’energia e c’è una magia, con la necessità che tutto si deve congiungere nello stesso momento. Il Salone invece è un delirio”. In effetti, quella sì è la vera giungla. E non c’è neanche l’ayahuasca, neppure in pratiche borracce sostenibili e brandizzate.