I giorni di Fiume e le brame di un seduttore insaziabile di protagonismo
D’annunzio protofascista? La straripante biografia di Serra
Il 16 giugno 1914, quando mancano pochi giorni alle revolverate di Sarajevo che metteranno in moto i massacri della Prima guerra mondiale, un Gabriele D’Annunzio cinquantunenne che da quattro anni viveva in Francia incontra l’ambasciatore francese a San Pietroburgo, al quale si rivolge così: “Questa guerra imminente che sembrate temere, ebbene io la invoco con tutte le forze della mia anima”. L’uomo che aveva dietro di sé decenni di successi in ciascun genere letterario, il primattore che trasformava in spettacolo massmediatico tutto quello che toccava, il seduttore di cui era infinita la sequenza di donne ricche o famose che non gli avevano detto di no, il giornalista che riscuoteva anticipi succulenti anche se poi non sempre scriveva quello per cui era stato pagato, l’inventore di slogan o di manifesti pubblicitari che avevano contrassegnato l’avvio del Novecento, quest’uomo insaziabile di protagonismo bramava un proscenio nuovo e inaudito, e di cui gli importava mica tanto che sarebbe stato costellato di ventenni europei morti ammazzati. Un proscenio di cui accenderà la prima fila quanto nessun altro intellettuale europeo del suo tempo, ed eccezion fatta per lo scrittore Ernst Jünger, il quale da fante che andava all’assalto seppe guadagnarsi la più alta onorificenza militare tedesca.
Andato in guerra da volontario, D’Annunzio otterrà quattro promozioni per meriti acquisiti in combattimento. A 51 anni e oltre si guadagna una medaglia d’oro, cinque d’argento, una di bronzo, la croce di guerra francese. Del D’Annunzio guerriero uno scrittore francese dirà che “nessun eroe dei suoi romanzi” poteva stargli al paro. Lo scrive Maurizio Serra (nato a Londra nel 1955, diplomatico di carriera) in questo suo nuovo e densissimo libro, L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza Editore), che chiude la terna dei libri da lui dedicati in poco meno di un decennio ai tre intellettuali che fanno ciascuno da idealtipo del Novecento italiano: Italo Svevo, D’Annunzio e Curzio Malaparte.
Chi scrive ha letto e riletto tutto quello che Svevo ha messo sulla carta (nonché tutto quello che di Malaparte andava letto), e invece relativamente poco di D’Annunzio. Su tutti Il piacere, lo splendido Notturno, il Carmen votivum di cui posseggo l’edizione originale, le raccolte di poesia dei debutti. Mea culpa. Non ho mai letto nulla del suo teatro; quanto alle poesie pur notevoli di D’Annunzio gli metto avanti l’opera di Giovanni Pascoli. Solo che quando ho detto questo non ho detto nulla, talmente complesso e ingombrante è “il caso D’Annunzio”. Talmente inestricabile il viluppo tra la sua opera comunque immane e le esperienze tutte incandescenti della sua vita. Naturalmente avevo via via divorato le biografie che gli hanno dedicato prima Annamaria Andreoli (nel 2001) e poi Giordano Bruno Guerri (nel 2008). E a proposito di Giordano, lui mi ci ha invitato al Vittoriale e abbiamo mangiato assieme nella Sala della Tartaruga e quando sento parlare di kitsch a proposito della casa in cui D’Annunzio visse gli ultimi quindici anni della sua vita, ho un moto di repugnanza. E’ una straordinaria casa en artiste, tanto che a percorrerne le stanze e i corridoi ti vengono i brividi da quanto era ampio e struggente l’arcobaleno dei suoi interessi e delle sue collezioni. Che poi molti di quegli oggetti non li avesse mai pagati e che un bel po’ siano della paccottiglia, è un altro discorso.
E del resto il discorso che mi pare funga da nocciolo fondante dello straripante libro di Serra è ancora un altro. Sì o no D’Annunzio è stato una sorta di protofascista, uno che ha arato il terreno preparatorio alla vittoria di Benito Mussolini? E che dire del D’Annunzio di cui ancora in queste settimane stiamo rievocando le gesta, quello che a Fiume capeggia un arrembaggio di soldati e intellettuali in nome dell’italianità di quelle terre, quei “500 giorni” di cui ripetutamente è stato scritto che erano una sorta di “Sessantotto” ante litteram, una sorta di “Sessantotto” apprestato da destra? Aveva qualche ragione Thomas Mann a scrivere che il D’Annunzio di Fiume altro non era che ”la scimmia di Garibaldi” così come durante la guerra era stato “la scimmia di Wagner”?
Quanto alla situazione di Fiume e delle attigue città della Dalmazia, Fiume alla fine degli anni Dieci vantava una popolazione di 60 mila abitanti che per metà era italiana e per il 40 per cento fatta di croati e sloveni. A Zara, Pola, Spalato gli italiani arrivavano all’80-90 per cento degli abitanti. Nelle campagne tutt’attorno erano nettamente minoritari. A guerra conclusa, il 28 ottobre 1918, la popolazione di Fiume è spaccata in due comitati nazionali, l’uno italiano e l’altro croato, l’uno contrapposto all’altro. Per tutto il 1919 e sino al settembre la conferenza di pace tra le potenze vittoriose non appaga nemmeno un po' le richieste italiane di avere a sé Fiume e dintorni, da cui la retorica della “vittoria mutilata” che D’Annunzio coltiva alla grande. Il 12 settembre 1919 il Vate si mette in movimento con al fianco i suoi uomini più fidati, sicuro com’è che i soldati dell’esercito italiano mai e poi mai apriranno il fuoco a bloccarlo. C’è di tutto ma proprio tutto nel corteo dannunziano che irrompe a Fiume tra il tripudio della gente italiana. C’è uno dei futuri assassini di Matteotti, scrive Serra, ma anche un capitano legionario ebreo che verrà trucidato dalle SS tedesche alle Fosse Ardeatine. I volontari affluiscono da ogni parte d’Italia; al culmine dell’avventura dannunziana i fiumani in armi saranno ottomila. Il contante di che pagare la gran festa ce lo mette la Banca Commerciale Italiana. E siccome è una festa libertaria quanto di più atta agli irregolari, è notevole l’uso che loro fanno della “polvere bianca uscita da una confettiera d’oro” per come la cocaina viene chiamata da Giovanni Comisso, un “fiumano” che conquisterà un rango di rilievo nella letteratura italiana del Novecento. Mussolini guarda da lontano, sbircia, impara, sta con un piede in una scarpa (i fiumani) e con un piede nell’altro (il governo italiano). Non siamo affatto nel pre-fascismo, ma entro a un’esperienza e a un’emozionalità diffusa di cui Mussolini saprà avvalersi quando sarà il suo turno di “marciare” su un obiettivo politicamente simbolico.
Serra scrive che D’Annunzio era consapevole di doversi ritirare prima o poi da Fiume, ma che contava di farlo alle migliori condizioni possibili. Solo che il tempo giocava contro di lui. Dopo mesi e mesi di blocco degli approvvigionamenti di cibo e altro, la società civile fiumana è allo stremo. Il governo italiano, guidato adesso da un uomo duro come il ferro quale Giovanni Giolitti, è abile nel non concedere nulla a D’Annunzio e contemporaneamente nel non fare nulla di sanguinoso contro di lui e i suoi uomini, persino quando costoro sequestrano impudentemente navi cariche di cibo o di armi. L’Italia e la Jugoslavia il 12 novembre 1920 sottoscrivono l’accordo di Rapallo sui rispettivi territori, dove Fiume viene indicato come uno “Stato a sé”, il che voleva dire più o meno accordarlo all’Italia. A quel punto il “Comandante” dovrebbe ritirarsi in buon ordine e lasciare che gli stati stiano ai loro accordi. E invece D’Annunzio si mette a straparlare da un qualche balcone come un ciarlatano qualsiasi.
La stazione d’arrivo è purtroppo il Natale 1920, quando nello scontro tra italiani scorrerà del sangue, più di 50 morti dall’una e dall’altra parte. Finché D’Annunzio non decide di congedarsi da Fiume nel gennaio 1921. S’è dunque tolto di mezzo come eventuale rivale politico di Mussolini, il quale nelle acque di Fiume non s’era mai bagnato le dita. Lui sì pronto ad acciuffare quello che D’Annunzio non poteva acciuffare, il timone del comando politico nazionale. Comincia un’altra storia politica, cui il D’Annunzio che sta via via invecchiando assisterà da una villa sul Garda che ha comprato a poco prezzo e di cui Mussolini gli pagherà le (enormi) spese accessorie pur di tenerselo buono. Ci sono le fotografie che li mostrano seduti l’uno accanto all’altro al Vittoriale, Mussolini con l’aria di chi fa visita a un vecchio zio malconcio in salute. Un vecchio zio tuttavia che mai e poi mai avrebbe accolto affettuosamente Adolf Hitler a Roma a dargli dei buffetti sulle guance. “Non sono partecipe di tanto disonore”, dirà una volta il Vate.