Gli italiani internati in Germania, un'altra storia terribile del 1943-45
“Semischiavi”. I ricordi di un testimone nel libro di Alfio Caruso
Chi di noi studia o rievoca i due anni drammaticissimi della storia italiana del Novecento – dalla metà del 1943 alla metà del 1945 –, in cui italiani si avventarono accaniti contro altri italiani, è abituato a ritenere che le parti in causa fossero due, quelli che si schierarono accanto a Mussolini nella Rsi e il partigianato che li combatté. In realtà entro a quello scenario terrificante c’era un terzo comparto di italiani, e nemmeno tanto piccolo. I circa 700mila soldati e ufficiali che nel 1943 erano stati internati dai tedeschi in Germania e in Polonia, e senza contare i circa 50mila internati nei Balcani. Uomini che i tedeschi sprezzavano, perché appartenenti alla stessa gente che li aveva “traditi” al momento del governo Badoglio, e ai quali riservavano nei “campi” le condizioni le più umilianti. Giovanni Guareschi era stato uno di loro. Ma anche l’avvocato Odoardo Ascari di cui molti di noi si rammentano: quello che nel dopoguerra difenderà i parenti degli assassinati nel “Triangolo rosso”, le vittime del Vajont, le parti civili della strage di piazza Fontana, la moglie e i figli del commissario Luigi Calabresi.
A dire di come li trattavano i tedeschi, basta andare alla pagina 125 di quest’ultimo e come sempre saporoso libro di Alfio Caruso (Salvate gli italiani, Neri Pozza), dov’è raccontato che nello Stalag 367 in Polonia un giorno che la temperatura era sotto zero la polizia tedesca radunò i prigionieri italiani e li sottopose a una perquisizione durata cinque ore e mezza. A due ufficiali italiani il cui aspetto non era stato ritenuto all’altezza, portarono via i pantaloni lasciandoli in mutande. Tanto che alle proteste di alcuni di coloro che stavano ai vertici della Rsi, i quali lamentavano che la condizione dei prigionieri italiani fosse quella di “semischiavi”, Adolf Hitler aveva replicato: “Tutto quello che facciamo, lo facciamo per il Duce, perché il popolo tedesco non può amare chi li ha traditi”. Detto in altre parole: i prigionieri italiani erano scarto, monnezza, gente che non meritava nulla di nulla. Nemmeno di essere arruolati nelle formazioni che combattevano accanto ai tedeschi, e questo perché gli italiani avevano dimostrato di non valere nulla sul campo di battaglia. Caruso, i cui libri vanno letti riga per riga da quanto ogni riga indica un fatto o marca un personaggio, scrive che lo stesso Mussolini lesse con soddisfazione di un episodio militare in cui i soldati “badogliani” s’erano comportati valorosamente contro i tedeschi. Del resto lo sapeva che lui stesso era un prigioniero d’eccezione dei tedeschi.
E a questo punto entra in scena un personaggio – o meglio un testimone oculare di quegli anni e di quel tempo – che in un certo modo ha fatto da esca del libro/racconto di Caruso. Ossia Lorenzo Morera, chiamato Renzo, che aveva diciassette anni quando nel maggio 1944 arriva a Berlino con mamma e fratello di dieci anni per stare accanto al padre, il colonnello (poi generale) Umberto Morera, comandante della missione militare della Rsi a Berlino. Renzo Morera nel maggio 1944 ha appena fatto domanda per entrare volontario nella X Mas del comandante Junio Valerio Borghese. Il Renzo Morera dei giorni nostri, senza rinnegare la sua “considerazione” per il Mussolini del 1944, racconta a Caruso gli uomini e gli umori di allora e tanto più che suo padre era stato accanto al Duce in alcuni momenti e viaggi delicati di quell’anno stramaledetto. In uno di quei viaggi, il Duce si rivolge così a Morera padre: “Mi raccomando, bisogna fare non il possibile ma l’impossibile per salvare il fiore della nostra generazione, ossia gli internati. Occorre impedire che quei 700 mila ragazzi tornino a casa morti o malati com’è successo finora, che sono rientrati tutti tubercolotici. Non dobbiamo rovinare il futuro del nostro paese”. Dopo un suo incontro con Hitler, che pure era appena uscito illeso dall’attentato di Claus von Stauffenberg, Mussolini ottiene che gli internati dopo undici mesi d’inferno siano trattati più decentemente nel senso che si lasci loro la scelta se arruolarsi nella Wermacht o nelle forze armate della Rsi, scegliere lo status di lavoratori civili oppure restare prigionieri di guerra. Tra i 450 e i 500 mila scelsero il lavoro civile, tra i 20 e i 30 mila optarono per entrare nella Wermacht oppure nelle forze armate repubblichine, tra i 70 e gli 80 mila preferirono restare nel lager anziché schierarsi dalla parte dei tedeschi. Il mussoliniano Renzo Morera confessa a Caruso che lui e suo padre provarono ammirazione per questi ultimi. E del resto lo stesso e fascistissimo professor Giorgio Alberto Chiurco, che la Rsi ha messo a capo della Croce rossa italiana a Berlino, è uno che si presenta al campo di Dachau per consegnare ai detenuti italiani pacchi di viveri e di medicinali che s’è portato appresso. Lo rimandano indietro, lui e i suoi pacchi.
E comunque per i tedeschi gli stessi soldati italiani che combattono dalla loro parte scoria e monnezza sono e tali restano. In occasione dello sbarco alleato in Provenza dell’agosto 1944 due ufficiali della capitaneria di porto di Genova hanno impartito un ordine di ripiegamento a quelli di Sanremo, un ordine previsto dai piani approntati per questa evenienza. La reazione dei tedeschi, scrive Caruso, è “belluina” tanto che fucilano i due ufficiali. Mussolini tempesta di telefonate i caporioni tedeschi annunciando loro che assegnerà la medaglia d’oro alla memoria ai due sventurati ufficiali. Figurati quelli quanto si commuovono. Povera nostra patria, poveri ragazzi italiani che il fascismo aveva scaraventato a milioni nel teatro dell’orrore.
Nella Berlino su cui i russi stanno per piombare da un momento all’altro, la comunità fascistica italiana non sa che pesci pigliare. Uno dei primattori del gruppo, il siciliano Filippo Anfuso, ottiene un appuntamento il 25 marzo 1945 con il ministro nazi Joachim von Ribbentrop, il quale ancora a quella data gli dice d’esser sicuro che mai e poi mai la Germania perderà la guerra. A Berlino si sono concentrati qualcosa come mezzo milione di europei pronti a dare la loro vita pur di difendere la capitale del Reich. Per quel che è degli italiani, è arrivato un ordine di Mussolini secondo cui nessun italiano deve sparare un solo colpo di fucile a difesa del nazismo agonizzante e dell’uomo da cui il Duce s’era lasciato infettare politicamente per poi restare suo ostaggio dopo il settembre del 1943. Quanto a Renzo Morera e alla sua famiglia, che erano rimasti a Berlino sino ai primi giorni del 1945, riuscirono a fuggire e a passare in territorio controllato dai francesi. Arrestati e poi liberati, il 28 febbraio 1946 rientrano al Brennero: sui marciapiedi della stazione i partigiani li insultano. Il generale Morera verrà processato da un tribunale militare che lo assolse da ogni addebito. Il figlio diventerà un avvocato di successo specializzato negli arbitrati internazionali.