Fratello Gaber, che idiozia dire trent'anni di cancrena democristiana
Leggendo “L’Italia nel novecento” di Gotor, libro denso e necessario. “Io se fossi Dio”, canzone poco conosciuta che voleva essere un contraltare all’omicidio Moro. Una ferita
Quando ho cominciato a leggere, con l’intento di raccontarlo ai lettori del Foglio, questo recente L’Italia nel Novecento di Miguel Gotor (di cui avevo enormemente apprezzato nel 2012 il suo Lettere dalla prigionia di Aldo Moro, entrambi i libri sono editi da Einaudi) a ogni pagina era come se mi chiedessi “Ma da dove comincio, ma da dove l’afferro questo libro così denso e così necessario nel raccontare gli ultimi cento anni del nostro paese?”. Comincio dal capitolo dedicato ai primi passi della strategia della tensione, ai tempi della bomba milanese del dicembre 1969, dove leggo che a undici giorni dallo scoppio di Piazza Fontana il ministro degli Esteri Aldo Moro va a far visita a Giuseppe Saragat nella sua residenza estiva di Castelporziano e, a quanto ne scrive un giornalista che disponeva di informazioni riservate, il colloquio tra i due si fa accesissimo perché Moro è convinto che la pista anarchica sia falsa laddove Saragat è convinto della sua validità, e a quel punto Moro avrebbe minacciato il presidente della Repubblica di deferirlo alla Corte costituzionale perché intendeva sciogliere le Camere e promuovere “una svolta presidenzialista” del sistema costituzionale.
Oppure comincio da come andarono effettivamente le cose nell’estate del 1977, quando il criminale nazista Herbert Kappler riuscì a filarsela alla chetichella dall’ospedale militare del Celio e tutti pensammo che l’artefice di quella fuga riuscita fosse la donna tedesca che gli era sentimentalmente devota, e invece la fuga era stata architettata dai servizi segreti italiani i quali vennero incontro a una stringente richiesta del governo tedesco e però lo fecero sottobanco pur di non accendere l’opinione pubblica italiana. Oppure ancora comincio dalle pagine asciutte in cui Gotor indica la china micidiale su cui scivolarono molti degli attori della generazione del Settantasette, ovvero la tossicodipendenza dall’acido Lsd e dall’eroina. Scrive così Gotor: “I primi otto morti in Italia si registrano nel 1974, salirono a quaranta nel 1977 e schizzarono a 206 nel 1980, con oltre ventimila consumatori abituali, i cosiddetti ‘bucomani’”.
E invece alle pagine 356 e 357 di questo libro (che di pagine ne vanta 568 di cui nessuna superflua) è come se mi imbattessi in qualcosa che mi lascia di sasso. Ed è il testo di un uomo e di un artista per me sacro, il cantautore Giorgio Gaber. Siamo nel capitolo del libro in cui Gotor ha raccontato magistralmente il tempo del ratto Moro, la lunga agonia di questo “professore di diritto che era stato rapito senza alcun diritto” (Enzo Biagi), il cozzo tra le due opposte opzioni politiche del governo italiano (se dare una prezzo alla sua vita oppure assistere impassibili al sacrificio di quella vita), come in realtà ce ne fosse una terza, ossia quella di “trattare” con i rapitori senza dirlo (fatelo ma non fatemelo sapere, aveva detto Enrico Berlinguer ai democristiani), una terza opzione di cui Gotor è prodigo nel raccontare fatti e personaggi e particolari, tanto che questo undicesimo capitolo è forse il più bello del libro. Ebbene, e senza che si capisca bene esattamente perché, i terroristi di Mario Moretti passano alla decisione che alla lunga seppellirà il terrorismo rosso, quella di uccidere un prigioniero inerme.
Ebbene esattamente a quel punto Gotor offre il testo di una canzone di Gaber che non conoscevo affatto, “Io se fossi Dio”, ma che credo siano in molti a non conoscere da quanto è dissimile da mille altri ragionamenti e cantate di Gaber. Il fatto è che Gaber (e il suo paroliere, uno di cui altre volte ho condiviso pure i respiri) vogliono far muro contro la beatificazione di Moro, e questo perché ritengono che la sua morte – quella morte – non cancelli il suo precedente percorso politico, la sua longeva identità politica, il famoso e deprecatissimo “trentennale regime democristiano” per usare una delle più grandi stupidaggini interpretative applicate alla nostra storia. Vi lascio alle parole che sono purtroppo queste e meno male che non l’avevo mai ascoltata questa canzone horror: “E se al mio Dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara / se gli ha sparato un brigatista diventa l’unico statista. / S’io fossi Dio, quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio / c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire / che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana / è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana. / Io se fossi Dio, un Dio incosciente enormemente saggio / c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera / ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era”.
Trent’anni di cancrena, facce da responsabili di quella cancrena che restano tali pur dopo la morte comminata a freddo da un paio di esaltati da due soldi? Dio che idiozie, nostro amato, nostro irrinunciabile, nostro fratello Gaber. Resta fermo per me quel che provai nei mesi che separano la morte di Moro dalla prima edizione de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia, l’attesa snervante del libro di cui sapevo che avrebbe restituito dignità e interezza umana al democristiano “meno implicato” di tutti per come aveva scritto Sciascia.
Trent’anni di cancrena democristiana? Dio, che ributtante idiozia da taverna. Alla pagina che precede quella dove sono pubblicati i versi di Gaber, Gotor li indica a puntino i dati rilevanti di quel trentennio di storia repubblicana, dal 1951 al 1981. La speranza di vita degli italiani passò da 63 a 71 anni per i maschi e da 67 a oltre 78 per le femmine. Gli analfabeti scesero dal 13 al 3 per cento. Gli iscritti all’università passarono da 227 mila a oltre un milione di matricole. Il reddito reale pro capite si quadruplicò. I morti nel primo anno di vita passarono dal 67 al 14 per ogni mille abitanti. Nel 1975 l’Italia divenne la settima potenza industriale del mondo.
Mica male per essere stato un trentennio di “cancrena democristiana”.