Mandare a memoria Vasilij Grossman per capire l'orrore che fu il comunismo reale
Un orrore che non è affatto un incidente della storia
"Tutto posso raccontare, solamente che nel racconto sono parole, mentre lì era vita, sofferenze, morte per fame”. Così scrive Vasilij Grossman in questo Tutto scorre..., che Adelphi aveva pubblicato in edizione italiana già nel 1987 e che io ho letto soltanto adesso dietro suggerimento di Mattia Feltri che ne era rimasto come ipnotizzato. E per forza. Perché Grossman, l’autore di Vita e destino (il romanzo incentrato sulla battaglia per Stalingrado), ossia di uno dei libri più importanti del Novecento, qui si mette a raccontare la vita di tutti i giorni nel comunismo reale sovietico degli anni Trenta e successivi. La vita sì, le sofferenze, la morte per fame di tanti, la polizia politica che bussa alla porta la notte e si porta via tuo marito o tuo figlio, le mogli scaraventate nei lager perché non avevano denunziato i mariti, contadini ucraini che per il fatto di avere tre mucche e magari uno strumento agricolo lievemente più perfezionato di un aratro venivano definiti “nemici del popolo” e trattati bestialmente, il tempo (nel 1937) in cui i cameroni delle prigioni erano stracolmi al punto che i prigionieri potevano voltarsi da un fianco all’altro solo se lo facevano tutti contemporaneamente al comando del capocamerata, i convogli di prigionieri che partivano da Mosca in direzione della Siberia e ci mettevano un mese ad arrivare, convogli dove i reclusi erano assiepati come “sardine”, quel termine che noi oggi associamo alla festa di tanti e tante nelle piazze italiane antisovraniste.
Né dovete dimenticare che lo scrittore/testimone Grossman (nato in Ucraina nel 1905, morto di un tumore allo stomaco nel settembre 1964) era un ebreo – il suo nome originario, Iosif Salomonovich, era stato subito “russificato” – che negli anni Trenta ci aveva creduto nel comunismo e nella sua potenzialità di creare “uomini nuovi”. Nel giugno 1937 un appello/monnezza contro il “complotto Trockij-Bucharin” portava anche la sua firma. I suoi mille giorni di corrispondente dal fronte della Seconda guerra mondiale li trascorse da entusiasta dell’esercito sovietico che finì col travolgere i nazi. C’era anche lui il 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche oltrepassarono il cancello di Auschwitz. Poi avvenne la svolta, la sua personale e drammatica “revisione” di quello in cui aveva creduto, e questo nell’immediato Dopoguerra quando sbatté il muso contro la campagna antisemita interrotta unicamente dalla morte di Stalin e durante la quale vennero fucilati alcuni dei suoi amici e sodali ebrei. Tutto scorre…, che lui aveva scritto nei secondi anni Cinquanta e primissimi Sessanta al modo di un monologo interiore da recitare a sé stesso, ben sapendo che non una riga ne sarebbe apparsa sulla stampa sovietica, verrà pubblicato postumo in Francia nel 1970, l’anno dopo in Italia. Quanto al suo libro fondamentale, Vita e destino, è un miracolo che nei tardi anni Settanta un paio di copie del manoscritto arrivassero clandestine in Europa, dove venne pubblicato dapprima in Francia e poi dalla meritoria Jaca Book in Italia, nel 1984, dove a lungo furono in pochissimi ad accorgersi con che razza di capolavoro avessero a che fare. Finché nel 2008 l’Adelphi non ne pubblicò una nuova traduzione (di Claudia Zonghetti), e voi lo sapete che la casa editrice milanese trasforma editorialmente in oro tutto quello che tocca. A mia vergogna, io lo lessi soltanto allora.
Da cittadino russo nato in Ucraina, il “racconto” di Grossman è particolarmente dettagliato e straziante su quel che accadde in Ucraina come conseguenze, a partire dal 1930, della collettivizzazione forzata della produzione agricola da parte di Stalin. Il “granaio” dell’Urss venne ridotto a un gigantesco cimitero, e anche se molti paesi occidentali non hanno sottoscritto la Risoluzione del 23 ottobre 2008 del Parlamento europeo nella quale la carestia del 1932-1933 in Ucraina viene riconosciuta come “un crimine contro l’umanità”. E’ lo stesso Grossman a raffrontare reiteratamente la condizione degli ebrei per come vennero trattati da nazi e quella dei “kulaki” per come vennero trattati dal regime staliniano. Un genocidio nell’uno e nell’altro caso. Ai quattro babbei che ancora di recente hanno rifiutato qualsiasi analogia tra il comunismo reale e il nazismo reale, offro queste righe di Grossman, lì nel cuore del capitolo dedicato all’“Holomodor”, la carestia che provocò milioni e milioni di morti ucraini (tra un minimo di un milione e mezzo e un massimo di cinque milioni): “Sopravvenne il terrore. Le madri guardano i figli e cominciano a gridare dalla paura. Gridano come fosse penetrato in casa un serpente. E quel serpente è la morte, la fame. Che fare? I contadini non pensavano ad altro: mangiare. Succhi, contrai le mandibole, la saliva scorre, la inghiotti, ma non è con la saliva che ti sazi. Se di notte ti svegli, tutto attorno c’è silenzio, non una conversazione, non un’armonica. Come in una tomba. Solo la fame s’aggira, non dorme. I bambini, nelle capanne, piangono sin dal mattino: chiedono pane. E la madre, cosa vuoi che gli dia, la neve? E nessuno che ti porga aiuto. Da quelli del partito una sola risposta: dovevate lavorare, non starvene con le mani in mano, Oppure rispondevano: andate a cercare in casa vostra, nel vostro villaggio avete imboscato tanto di quel grano, da bastare per tre anni”.
Tutto questo orrore a tonnellate non è affatto un incidente della storia, un qualcosa che è andato storto in un progetto generoso che voleva rendere migliore l’umanità e che per questo si differenzia immensamente dal nazismo, come recitano i babbei che citavo prima, e qualcuno di loro a tutt’oggi si vanta di essere “comunista”. No. Si chiama lotta di classe, la lotta per la vita e per la morte di un partito e dei suoi militanti dal cuore di “fanatici” contro tutto il resto della società civile. Si chiama comunismo realizzato, società pianificata dall’alto in ogni suo aspetto e particolare innanzitutto economico, è la meravigliosa “eguaglianza” tra gli uomini prospettata ardentemente da Lenin e dai suoi compagni di avventura ideologica, una “eguaglianza” di cui ci penserà la creatura per eccellenza del bolscevismo russo, ossia la Ghepeù, a rifinire i dettagli: di solito i nove grammi di piombo di un colpo di pistola alla nuca in uno scantinato della Lubianka.
E difatti nei lager percorsi dalla scrittura e dalla memoria di Grossman c’è anche chi era stato schiaffato in cella già ai tempi di Lenin. Vittime di cui Grossman fa questo memorabile ritratto: “C’erano delle vecchie dallo sguardo stanco, tranquillo, finite in carcere già al tempo di Lenin, che contavano a decine gli anni di prigione e di lager. Erano le populiste, le socialrivoluzionarie, le socialdemocratiche. Le guardie le stimavano, le ladre ne avevano rispetto, esse non si alzavano dal tavolaccio neppure quando entrava nella baracca il capo in persona. Si raccontava che una di loro, Ol’ga Nikolaevna, un’esile vecchina dai capelli bianchi, prima della rivoluzione fosse un’anarchica. Aveva buttato una bomba nella carrozza del governatore di Varsavia, aveva sparato su un generale della gendarmeria. Adesso se ne sta seduta sul pancaccio del lager e legge un libriccino, bevendo acqua calda dalla tazza di metallo”.
La vita nel comunismo reale. Valeva la pena raccontarla.