Ecco perché Sofri, uno dei migliori della mia generazione, dovrebbe dirci di più
La replica all’articolo sulla riapertura del processo Pinelli
Vedo un’intelligenza del destino nel fatto che sulla seconda pagina del Foglio del martedì il mio pezzo sia spesso contiguo a quello di Adriano Sofri, talvolta l’uno serrato all’altro al modo di due “sardine”. Seppure diverse e talvolta diversissime come sono state le nostre rispettive traiettorie in questi ultimi quaranta e passa anni, Sofri resta uno dei talenti della mia generazione – i nati negli anni Quaranta –, lui, Ernesto Galli della Loggia, Massimo Cacciari, Paolo Mieli. Della decina di suoi libri deposti su uno scaffale della mia biblioteca, Il nodo e il chiodo pubblicato da Sellerio nel 1995 è un gioiello nel vantare quanto sia meglio, nelle contese tra gli uomini, annodare le rispettive argomentazioni in modo che si possano poi sciogliere e riannodarle che non piantare un chiodo e dunque lacerare per sempre.
Ne sta parlando uno che non ha dubbi che nel maggio 1972 a Milano sia stato un commando di Lotta continua a piantare un chiodo e a lacerare, sotto forma di quei due colpi di pistola sparati alla testa e alla schiena di un commissario politico di 33 anni, Luigi Calabresi. I dubbi li ho sul ruolo esatto avuto da Sofri nell’ordire quell’agguato che fa da data di nascita del terrorismo “rosso”, lui che a quel tempo il suo lavoro militante lo faceva a Napoli, e dunque lontanissimo dalla traiettoria Massa Carrara-Milano lungo la quale si mossero gli assassini di Calabresi. Resta per me irrisolto il quesito su quel che si siano detti davvero Sofri e il suo affezionatissimo adepto a Lotta continua, Leonardo Marino, che era venuto giù in macchina a Pisa in occasione del comizio di Sofri in onore e in memoria di Franco Serantini, l’anarchico che poliziotti furenti avevano in buona sostanza assassinato. Contrariamente a quel che sostenevano i sodali di Lotta continua, i quali si appoggiavano sul fatto in quel momento a Pisa scrosciava una pioggia furibonda, quell’incontro c’è stato di certo. Ero a Pisa quel pomeriggio, ospite da Luciano Della Mea, uno dei padri di Lotta continua e un grandissimo amico di me giovane. Avevamo deciso di non andare al comizio di Sofri su Serantini e tanto più che in quei momenti la pioggia batteva alla grande contro le finestre di casa Della Mea. A un certo punto la pioggia cessò e Luciano e io ci mettemmo in movimento verso il luogo del comizio. Ricordo perfettamente i ragazzi che se ne stavano allontanando. Non cadeva più una goccia. Della Mea testimonierà in tribunale (a favore di Sofri) che i miei pantaloni di pelle rossa “ruscellavano di pioggia”. La mia memoria ci ha messo venti o trent’anni a ricostruire i momenti e i particolari di quella nostra camminata. Il fatto è _ lo dico con l’infinito amore che ho per la memoria di Luciano _ che Della Mea aveva mentito. Come aveva mentito la donna che aveva portato con la sua auto Marino a Pisa. Aveva testimoniato che non era vero niente, solo che la targa della sua auto parcheggiata a Pisa la trovarono e per questo la condannarono per falsa testimonianza. Perché tutte queste bugie a negare che il colloquio tra Marino e Sofri ci fu?
Detto questo, io non penso che Sofri abbia detto il “Vai e uccidi”. No, non lo penso. Sapeva quello che altri stavano apprestando, non è detto che lo approvasse, non so che cosa esattamente abbia detto a Marino, se di partecipare comunque a un’azione volta a colpire “il boia” di Giuseppe Pinelli. Non lo so. Non mi spiace pensare che lui quell’azione non l’approvasse in pieno, e che tutto del suo comportamento successivo sia stato puramente in difesa e a protezione dei “compagni” che in quell’azione erano stati in prima linea. (Una volta ha definito gli assassini di Calabresi “I migliori della mia generazione”.) Ai miei occhi tutto del suo comportamento negli anni successivi, a cominciare dal libro che ho citato all’inizio, lui lo ha vissuto come una sorta di espiazione, a cominciare dal modo in cui ha scelto di vivere in prima persona il belluino assedio di Sarajevo da parte dei serbi che tutt’attorno alla città sparavano dall’alto su qualsiasi cosa si muovesse. Sì, una personale espiazione, e non soltanto per i sei anni trascorsi in cella, una cella di cui Sofri ha raccontato (nel bellissimo libro che gli ha dedicato Mattia Feltri) che non poteva usare una crema che lo proteggesse dai micidiali morsi delle zanzare in estate, perché usare quella crema in cella è proibito.
In un libro sugli “anni del grande disordine” apparso alcuni anni fa, il suo autore, Luca Mastrantonio, una volta sola faceva il mio nome e questo in quanto aderente a Lotta continua. Ciò che io non sono mai stato un solo minuto della mia vita, neppure di sbieco. A una mia telefonata risentita, Mastrantonio farfugliò che si riferiva alla mia partecipazione al loro quotidiano. Ora io nella redazione di quel quotidiano non sono mai entrato una sola volta nella mia vita tra 1971 e 1975. Non lo leggevo neppure o solo di tanto in tanto. Era successo che nel 1971 Sofri fosse venuto a casa mia a chiedermi di fare da direttore responsabile di alcune loro pubblicazioni, non del quotidiano. Dissi ovviamente di sì, e lo rifarei oggi, perché ritenevo la loro voce una delle più autentiche della nostra generazione. Ne ho avuti 26 processi e tre condanne. Ricordo la volta che il pubblico ministero era Vittorio Occorsio e che dopo avere io ascoltato i brani di un demenziale articolo a causa del quale mi stavano processando, gli dissi: “Dottor Occorsio, guardi che io con quell’articolo idiota non c’entro niente di niente. Solo offrivo la mia firma perché loro potessero andare in edicola”. Lui mi rispose che lo capiva perfettamente. Occorsio aveva 47 anni quando nel 1976 Pierluigi Concutelli lo mitragliò a morte.
Leggo adesso sul Foglio che Sofri chiede una riapertura del processo per la morte di Giuseppe Pinelli, l’anarchico caduto innocentissimo dal quarto piano della questura milanese di via Fatebenefratelli. Il fatto nuovo, rispetto al processo di quaranta e passa anni fa che assolse in pieno Calabresi dall’accusa di essere il responsabile di quella morte, è che nei giorni e nelle ore in cui Pinelli veniva interrogato si aggirava per i locali della questura uno “squadrone” di uomini del servizio segreto civile dell’epoca, l’Ufficio affari riservati, un comparto tanto per non sbagliare guidato da un ex repubblichino, Silvano Russomanno, e che di certo in quel momento parteggiava ardentemente a favore della tesi che le bombe via via esplose a Milano avessero una matrice anarchica. Che quella tesi avesse numerosissimi tifosi e militanti nelle alte sfere dell’apparato statale italiano del tempo è indubbio e clamoroso. Che cosa esattamente facessero quegli uomini nelle ore che durò l’interrogatorio finale di Pinelli, un interrogatorio che s’era concluso tanto che il ferroviere anarchico aveva firmato il verbale che lo registrava, non lo sappiamo affatto. E se per caso, questo è il movente intellettuale che ha sollecitato l’intervento di Sofri, non fossero stati proprio questi misteriosi figuri ad avventarsi sul povero Pinelli, massacrarlo a colpi di arti marziali, afferrarlo per i piedi e e scaraventarlo giù? La versione dei fatti che se dimostrata manderebbe in fumo il lavoro di quattro anni fatto da un magistrato milanese d’eccezione e apertamente di sinistra, Gerardo D’Ambrosio, il quale alla luce dei fatti e dei particolari noti e comprovati ritenne che l’unica spiegazione possibile della caduta era un mancamento sopravvenuto al momento di andare a fumare una sigaretta al finestrone della stanzuccia (tanto che il mozzicone della sigaretta venne ritrovato accanto al corpo del povero Pinelli). Alla luce di particolari noti e comprovati, e laddove non ce n’è uno solo che finora vada a sostegno della tesi dell’aggressione finalizzata a uccidere. E del resto quale sarebbe stato il movente che rendesse plausibile una tale aggressione, che ci avrebbe fatto Russomanno di un anarchico morto perché buttato giù dalla finestra? Nello sport si chiama autogol. Che Russomanno fosse un ex repubblichino è certo, che fosse un cretino sesquipedale non mi pare. La tesi dell’aggressione è solo e soltanto “ideologica”, non ha a suo favore neppure un briciolo di elementi concreti.
Credo che abbia ragione Benedetta Tobagi, la figlia del mio indimenticabile Walter. In fatto di cose da dire e da raccontare in punta di verità a capire meglio quegli anni spaventosi, Sofri ne ha più che non gli uomini degli Affari riservati. Che cosa si dissero nella redazione di Lotta continua a via Dandolo la mattina in cui arrivò la notizia dell’agguato a Calabresi e ne venne fuori quel lercio editoriale in cui era scritto la morte di un commissario di 33 anni metteva di buonumore la classe operaia? Cose da dire e da raccontare in punta di verità, nel nome di una verità che puoi annodare e riannodare ogni volta che vengono alla luce elementi nuovi anziché piantarla come un chiodo nel corpo e nella nomea di Luigi Calabresi.
Ps. Sarà che non mi intendo di servizi segreti ma dubito che verrà fuori qualcosa di decisivo dalle indagini sugli uomini degli Affari riservati. Penso che verrà qualcosa di decisivo il giorno in cui Mario Calabresi si sentirà moralmente autorizzato a rivelare che cosa si sono detti a Parigi lui e Giorgio Pietrostefani, il leader di Lotta continua che era stato il vero mandante dell’assassinio di suo padre.