(foto LaPresse)

L'èra di Michael Jordan altro non è che un impareggiabile romanzo da brividi

Giampiero Mughini

“The Last Dance” e la magnificenza teatrale dello sport

Quale altro spettacolo sportivo al mondo regge il paragone con la Nba, il torneo nazionale americano di basketball, con quel perimetro sottostante il canestro dove si avventano l’uno contro l’altro prodigiosi atleti da due metri di altezza e 100 chili di peso? Il perimetro di cui qualcuno ha scritto che è come una sorta di laghetto dove un alligatore stia lottando selvaggiamente e che fa da scena teatrale portante della splendida serie televisiva americana The Last Dance, le dieci reboanti puntate che ciascuno di noi ha visto come in apnea e che raccontano l’epopea del Michael Jordan giocatore principe dei Chicago Bulls nel conquistare sei titoli Nba in otto anni, un traguardo mai raggiunto prima da un team americano. E quando dici Chicago Bulls dici sì Michael Jordan (un metro e novantotto di altezza), ossia quello che è stato reputato il più grande atleta al mondo del XX secolo, “uno che era Dio camuffato da Jordan”, come disse di lui Larry Bird (altro uomo/mito della pallacanestro americana), uno che molti vorrebbero quale prossimo vice di Joseph Biden nelle candidature alla presidenza degli Stati Uniti, ma dici anche il suo compagno di squadra Scottie Pippen (due metri e quattro di altezza), che in tanti giudicano il miglior difensore nella storia della pallacanestro americana; il bollente Dennis Rodman (due metri e uno di altezza), uno che non s’è negato nulla al mondo – dall’avere avuto una storia sentimentale con Madonna all’essere amico del dittatore a capo della Corea del nord; l’allenatore di quella squadra-miracolo, il Phil Jackson con cui ciascuno di noi passerebbe volentierissimo una serata a parlare della vita e dello sport, i due argomenti in cui Jackson è collaudatissimo. E non ultimo dici l’obeso Jerry Krause (è morto nel 2017), il Luciano Moggi dei Chicago, il direttore tecnico che con i suoi giocatori tirava al risparmio tanto da farli imbestialire (a un certo punto Scottie Pippen disse che non lo voleva mai più incontrare né vedere) ma che come nessun altro sapeva costruire la squadra perfetta da Nba, ossia cinque uomini che sapessero difendere e attaccare all’unisono. Quale romanzo contemporaneo presenta una tale galleria di personaggi umanamente e letterariamente da brivido? O volete paragonare questi personaggi e le loro imprese con le miserie umane che leggiamo ogni giorno sui giornali che compriamo al mattino, ad esempio quelle di giornalisti che litigano con altri giornalisti perché non ne vogliono sapere di lavorare in un giornale diretto da Maurizio Molinari da quanto ne verrebbe frustrato il loro amore del proletariato? 

 

 

Nel vedere The Last Dance avevo appreso l’esistenza di un libro celeberrimo per quanti amano la pallacanestro, il The Jordan Rules pubblicato nel 1992 (all’indomani della prima vittoria in Nba dei Chicago Bulls) da un giornalista americano particolarmente esperto di basket, Sam Smith. Subito lo avevo acciuffato su Amazon, pagandolo un occhio della testa. Al centro del bellissimo racconto c’era ancora una volta Jordan. Nato nel 1963, i Chicago Bulls lo avevano scelto nel 1984 e subito ne avevano fatto una stella. Un giocatore che aveva troppo di tutto, troppa velocità di gambe e di pensiero, troppa esplosività atletica, troppa tecnica, troppa personalità e voglia di vincere sempre e comunque. Quando giocava a carte con i suoi compagni di strada, scrive Smith, lo faceva “con la ferocia” di un Mike Tyson. Il pubblico riempiva gli stadi della pallacanestro pur di vederlo giocare e strafare. “Credevo che in attacco Jordan avesse 2.000 movimenti possibili. Mi sbagliavo, ne ha 3.000”, disse di lui un avversario dopo avergli visto fare cose inenarrabili. In una partita del 1988 dei Chicago Bulls contro gli Utah Jazz, a un certo punto, Jordan rubò la palla agli avversari e si scaraventò contro il canestro degli Utah dove a fronteggiarlo c’era un avversario nettamente più piccolo di lui. Jordan svettò in alto e schiacciò la palla nel canestro provocando un ruggito di ammirazione nel pubblico. Mentre Jordan tornava indietro, il proprietario degli Utah che sedeva in prima fila ai bordi del campo gli si rivolse ironicamente: “Perché non provi a sovrastare uno della tua altezza?”. Detto e fatto. Poco dopo Jordan rubò nuovamente la palla agli avversari e si rovesciò a gran velocità verso il canestro degli Utah. Solo che questa volta si trovò di fronte il centrale avversario, Mark Eaton, un mostro da 222 centimetri arduo da sovrastare per uno come Jordan alto “soltanto” 1,98. Jordan svettò in aria aggrappandosi alla maglietta di Eaton pur di andare ancora più in alto, finché non schiacciò anche questa volta la palla nel canestro. Nel tornare indietro si rivolse così al proprietario degli Utah: “Lui era abbastanza grande a tuo giudizio?”.

 

Solo che questo suo eccesso di dominanza in campo costituiva un problema per i Chicago Bulls, e questo sino al 1990, quando furono sconfitti piuttosto nettamente nella finale del torneo Nba. C’era talmente troppo di Jordan in campo che ne restava poco a disposizione per i suoi compagni di squadra, fatta eccezione per la simbiosi esistente tra lui e Pippen. E tanto più che la filosofia del coach Jackson era perfettamente all’opposto. Lui voleva che la sua squadra vincesse, non che Jordan dominasse le partite. Lui voleva che il quintetto fosse un tutto armonico in cui ognuno dava tutto se stesso agli altri. In casa dei Chicago Bulls c’era chi sosteneva che con Jordan la squadra non avrebbe mai vinto nulla, e per un attimo Krause ci pensò se sì o no darlo via in cambio di altri grandi giocatori. Ci volle tutta la pazienza e l’intelligenza di Jackson per tentare di placare l’egolatria di Jordan, per cercare di convincerlo che non era per lui una diminutio se, anziché tentare di fare passare la palla in mezzo a due o tre avversari, la dava via a un suo compagno meglio piazzato e meno marcato. Era il sistema del “triangolo”, perno della filosofia sportiva di Jackson, l’attaccare in modo che fossero contemporaneamente tre i giocatori che potessero chiudere ciascun punto, e tutto stava nello scegliere a gran velocità quale dei tre.

 

Chiudere lui il match, convinto com’era che nessun altri avrebbe saputo farlo meglio, o magari dare la palla a un compagno meglio piazzato? Sarà l’ambiguo canovaccio di tutto il destino sportivo di questo giocatore lunare. Bellissima è in The Last Dance la scena di non ricordo più quale partita che i Chicago Bulls stavano perdendo di due punti a pochi secondi dalla fine, e c’è Jordan che ha la palla e vorrebbe tirare, solo che ha di fronte una vera e propria muraglia umana, e a quel punto spara la palla alla sua destra nelle mani di un suo compagno di squadra, Steve Kerr, uno che nei Chicago partiva dalla panchina. Quello prende la palla come se fosse la cosa più importante che mai abbia avuto in mano e la pennella verso il canestro con un tiro da tre punti. Boato in campo, i Chicago hanno vinto. In quello stesso 1992 in cui uscì il libro di Smith, gli americani mandarono alle Olimpiadi la più inaudita squadra di basket mai esistita al mondo: Jordan, Pippen, Bird, Magic Johnson, Charles Barkley. Dio, la magnificenza teatrale dello sport.