Uffa!
La misteriosa psicosi che porta a rinunciare al bene prezioso della vita
Da Hemingway a Pavese: venticinque suicidi illustri nel libro di Susanna Schimperna. Storie di anime e abissi
Le statistiche ci dicono che il momento più atto per tentare il suicidio sia alle 4,48 del mattino, quando la notte ha compiuto la gran parte del suo lavoro e all’organismo umano tocca trovare la forza per organizzare il suo risveglio e la sua ripresa vitale. Talvolta quella forza fisica e mentale non c’è. Nata nel 1971 la scrittrice britannica Sarah Kane, nota per le sue opere teatrali che raccontavano all’estremo un mondo violento e feroce, diede come titolo “4,48 Psychosis” all’ultima sua pièce, scritta quando lei aveva 28 anni. La “psicosi” di quando ti si schianta dentro qualcosa di irreparabile. E difatti la protagonista alle 4,48 di una mattina prende la bellezza di 190 pillole per chiudere la sua vita. Pochi giorni dopo e mentre era ricoverata in ospedale a causa di un sovraccarico di sonniferi preso più o meno alle 4,48 del mattino, la Kane reale, che i medici avevano lasciato sola per tre ore, pur di non continuare a vivere trovò la forza di impiccarsi alla maniglia della sua stanza adoperando i lacci delle scarpe.
Da quale “psicosi” i suicidi trovano la forza di rinunciare al bene prezioso della vita? A raccontare quella “psicosi” la scrittrice e giornalista Susanna Schimperna ha percorso le vite di 25 suicidi scelti tra scrittori e poeti famosi (L’ultima pagina, Iacobelli editore), tutti destini a maneggiare i quali ti si arroventano i polpastrelli. Figurano nella lista Antonin Artaud, Pierre Drieu La Rochelle, Ernest Hemingway, Vladimir Majakovskij, Guido Morselli, Antonia Pozzi, Cesare Pavese, David Foster Wallace, la stessa Sarah Kane. E tanti altri. Una costellazione letteraria sontuosa se non fosse tragica. E’ la stessa Schimperna a premettere che dalla sua lista mancano altri scrittori morti suicidi, da Franco Lucentini a Henry de Montherlant, da Arthur Koestler a Raymond Roussel, da Arthur Adamov a Otto Weininger. Vi chiederete come mai manchi Primo Levi. Perché la Schimperna non è convinta che si sia trattato di un suicidio. Lei aveva incontrato lo scrittore torinese quattro mesi prima di quella maledetta notte dell’11 aprile 1987 in cui volò dalla tromba delle scale. Non ebbe la benché minima sensazione che quell’uomo, benché malato e ancor più malata sua madre che lui assisteva, covasse la risoluzione di togliersi la vita. E se fosse stata invece una sua improvvisa vertigine, una malattia di cui lui soffriva? Per quel che mi riguarda non condivido la “sensazione” della Schimperna. Quattro mesi di ulteriore desolazione personale sfrantumano eccome un uomo, e a quel punto l’unica soluzione che ti appare possibile è avviarti nel cuore della notte verso la tromba delle scale.
Di certo, nel caso di Levi come nel caso di molti altri, non c’è una spiegazione razionale di quella tragica decisione, non c’è una frasetta con soggetto predicato e complemento che tragga noi dall’impaccio di dover spiegare una morte volontaria e magari di rimbrottarne l’autore. Di certo non la spiegava la stupidaggine pronunziata da molti in occasione della morte di Levi, che lui fosse angosciato dal fervore “revisionistico” sulla storia del fascismo italiano. Così come non è minimamente credibile che Majakovskij abbia posto fine alla sua vita perché quello creato in Urss dal leninismo comunista non gli appariva più un paradiso. Molto di più deve aver contato che la splendida russa ventiduenne Tatiana Yakovleva, una modella che lavorava per Christian Dior, gli avesse detto di no. André Breton lo scrisse magnificamente nel commentare il suicidio del gigante russo: la ragione di un uomo non ha argomenti innanzi alla bellezza di certi seni femminili.
E comunque ciascuno arriva a suo modo a quel momento in cui in cui ti si rompe dentro qualcosa che nessuno può riparare. Ernest Hemingway ne aveva vissute di cotte e di crude, era sopravvissuto alle bombe della prima guerra mondiale, a un paio di incidenti aerei. Ebbene i due successivi ricoveri in una clinica americana nel 1960 e nel 1961, dove lo bersagliano a furia di elettroshock, lo mettono in ginocchio. Dopo il primo ricovero, la moglie Mary lo sorprende con il suo fucile da caccia in mano e gli occhi vitrei. Porta allora tutte le armi in cantina e la spranga a chiave. Scrive la Schimperna: “Ma dopo il secondo ricovero, [la moglie] lascia le chiavi sul tavolo della cucina e all’alba Hemingway, che aveva passato con lei una serata tranquilla cantando, si spara infilandosi la canna del fucile in bocca”.
Tutt’altra valenza ha il suicidio più spettacolare della letteratura novecentesca, il martirio cui si sottopose quarantacinquenne Yukio Mishima, lo scrittore giapponese che a tal punto si identificava con le tradizioni militari e imperiali di un Giappone che nella Seconda guerra mondiale si era creduto imbattibile per terra e per mare. Ci volle l’intervento personale dell’imperatore/Dio Hirohito perché il vertice militare giapponese si convincesse a firmare la resa. Solo che poco dopo lo stesso Hirohito viene costretto dagli americani a fare una sua dichiarazione radiofonica in cui ammette la propria natura umana, né più né meno di quella dei leader degli altri paesi del mondo. Per i giapponesi è un trauma insopportabile, tanto che a migliaia si suicidano. Mishima ha vent’anni quando la Seconda guerra mondiale si chiude ed è sconvolto da tutto questo, non se ne dà pace. Nel 1968 ha creato un suo esercito privato di cento individui cui ha dato nome Tate no Kai, la Società degli scudi. Il 25 novembre 1970 Mishima, accompagnato da quattro membri della sua truppa privata, arriva al quartiere generale di quel pochino di esercito che gli americani occupanti hanno consentito al Giappone. Mentre i suoi seguaci tengono in ostaggio il comandante del campo, lui esce sul balcone a raccomandare ai mille soldati lì sotto le sacre leggi dell’onore dei samurai: “Morire per una grande causa era considerato il più glorioso, eroico, brillante modo di morire…”. Dopo aver gridato tre volte “Viva l’imperatore!” Mishima rientra nella stanza, si trafigge il ventre alla maniera dell’antico rito samurai, e affida al suo più caro amico e discepolo, Masakatsu Morita, il compito di decapitarlo. Quello manca per due volte il colpo fatale, tanto che a sua volta si ucciderà dalla vergogna. A uccidere definitivamente Mishima è un altro dei suoi seguaci. Poco prima di morire Mishima aveva sussurrato ai suoi compagni che probabilmente nessuno di quelli cui si era rivolto dal balcone lo avevano ascoltato. “Furono le sue ultime parole”, scrive la Schimperna.
Assieme a quelli su David Foster Wallace e su Pavese, molto ricco è il capitolo dedicato allo scrittore ungherese Sandor Márai, uno che era fuggito prima dall’Ungheria fascista e poi da quella staliniana e che tuttavia aveva continuato a scrivere i suoi libri in ungherese. Márai si tira un colpo di rivoltella ottantanovenne, nel 1989, e dopo che nello spazio di un anno erano morti la moglie, il figlio, i due fratelli e la sorella. Quando era appena cominciata l’esplosione di notorietà che ne ha fatto uno degli autori più apprezzati e più tradotti del mondo. A leggere che era morto me ne stupii, che non fosse immortale l’autore di tali e tanti capolavori che avevo amato.