Uffa!
Mentire per evitare il peggio: per questo Putin è stato l'uomo giusto al posto giusto
La madre spazzina, il padre sopravvissuto a un'imboscata nazista, le botte nei vicoli e "il ragazzo di strada incazzato come una bestia e spietato come una tigre” visto dai terroristi ceceni. Storia di un leader in L'ultimo zar di Nicolai Lilin
Da come lo racconta in questo suo recente libro (Putin. L’ultimo Zar, Piemme, 2020) Nicolai Lilin, uno scrittore russo celebre per il suo romanzo Educazione siberiana tradotto in 17 lingue e che adesso vive a Milano, Vladimir Putin lavorò per il Kgb dal marzo 1975 all’agosto del 1991. La dissoluzione dell’impero sovietico la visse in prima fila. Gli ultimi cinque anni da agente del Kgn li trascorse nella Germania est e più precisamente a Dresda, dove sotto la copertura di direttore della Casa dell’amicizia tra Ddr e Urss era adibito al monitoraggio di quel che Usa e Germania ovest stavano apprestando in fatto di armi nucleari puntate contro l’Urss. Già allora, Putin era reputato un elemento di prim’ordine dal leggendario colonnello Lazar Matveev, allora al vertice delle strutture sovietiche di spionaggio internazionale.
Di che tempra fosse fatto Putin lo dimostrò la sera del 5 dicembre 1989 quando una folla di manifestanti tedeschi cercò di prendere d’assalto la sede del quartiere generale del gruppo di spionaggio sovietico, al numero 4 di Angelikastrasse. I manifestanti chiedevano nientemeno che l’accesso agli archivi del Kgb. Putin, da solo, uscì loro incontro. Era armato ma non lo dava a intendere, quel che gli premeva era “instaurare un dialogo”. E ci riuscì, parlando in un perfetto tedesco. Spiegò ai manifestanti che il palazzo era di proprietà del governo sovietico, e che in base a un accordo con il governo della Germania est non era aperto a ispezioni. Alla domanda su com’è che parlasse un tedesco talmente buono, rispose che lui di mestiere faceva l’interprete. Dopo di che i manifestanti se ne andarono senza avere rotto neppure un vetro. Un episodio in cui è riassunto tutto Putin: da una parte stava mentendo, dall’altra aveva evitato il peggio.
Prima di avere letto questo libro sapevo poco di Putin se non che politicamente è un osso durissimo e che serve a niente prenderlo a calci negli stinchi come fanno molti di quelli che non hanno in simpatia l’odierna Russia. Era nato il 7 ottobre 1952 in un piccolo monolocale di un vicolo leningradese. Il padre, anch’egli di nome Vladimir, lavorava come fabbro alla catena di montaggio di una fabbrica a Egorov. La madre Maria lavorava anch’essa in fabbrica ma dopo il parto, essendo il suo fisico molto indebolito e ancora segnato dai traumi della guerra, ottenne di essere assunta tra gli “spazzini” come vengono chiamati in Urss i custodi che tengono in ordine i palazzi e i loro cortili. Il padre di Putin aveva combattuto contro i tedeschi nei “battaglioni dei cacciatori”, piccoli gruppi di soldati mobili destinati alle operazioni di rappresaglia contro il nemico. Faceva parte di un gruppo di 28 soldati sovietici che caddero in un’imboscata e di cui ne sopravvissero solo quattro.
In quanto veterano di guerra, Putin padre aveva trovato lavoro in fabbrica e gli era stato dato in uso gratuito un monolocale nel centro di Leningrado. Questo per dire delle origini famigliari di Putin e per capire le tracce profonde che devono avere lasciato nel suo animo di nazionalista russo. Il quale crebbe nell’ambiente violento delle strade di una grande città, dove devi farti valere a forza di coraggio e di forza fisica. Putin scrive di se stesso adolescente che tra la scuola e la strada, a insegnargli di più è stata la strada e che quando c’era da fare a botte con i suoi coetanei lui non usava “metodi indegni”. Non so voi, ma sono proclive a credere a quel che Putin racconta di sé più che non a quello che farfuglia di sé il presidente americano Donald Trump. E dire che io non sono “antiamericano” neppure un tantino.
C’è un altro parametro che Lilin usa per farci capire con chi abbiamo a che fare. Sapete che uno degli elementi essenziali della formazione di Putin è stata la sua pratica del judo e più precisamente di un’arte marziale russa denominata sambo. Chi conosce lo sport, e in particolare lo sport agonistico, sa che in una palestra o in un campo da gioco ne impari più di te e degli altri che in una delle tante scuole mediocri e mediocrissime, com’è stata quella di me quindicenne. Ebbene, nel momento in cui Putin prese il potere al posto di Boris Eltsin apparvero in rete due foto l’una a fianco dell’altra. In una c’era l’ex presidente Eltsin, che giocava a tennis con gli oligarchi in una sala del Cremlino trasformata in campo da tennis, e pare fosse arcinoto che bastava lasciarsi battere a tennis da un giocatore mediocrissimo qual era Eltsin per trarne un immane vantaggio negli affari sovietici. Nella seconda foto si vedeva Putin, in una sala di judo, che stringeva il collo del proprio avversario con una mossa che aveva l’aria di essere pienamente riuscita. Sotto alle due foto, la didascalia: “Il Cremlino cambia presidente e anche sport”.
Retrostante a queste due foto è il giudizio di Lilin secondo cui la corsa al modello occidentale (“interpretato, copiato e applicato con frenesia senza comprenderne la complessità”) per come la tentò Eltsin si risolse in “un disastro” le cui conseguenze la società russa le sta ancora pagando. Lo sfacelo dei teoremi “comunisti” su cui si basava la dolente società russa aprì la strada alla corsa la più selvaggia all’accumulo di ricchezze private. La caduta dei puntelli rappresentati dalla burocrazia di partito e dalla polizia politica aprì la strada a furibonde contese criminali volte ad appropriarsi di fette cospicue della ricchezza pubblica. Valga per tutti un episodio citato da Lilin. Nel 1997 il corteo del presidente Eltsin avviato verso il Cremlino dovette cedere la strada al passaggio della scorta di uno degli oligarchi ascesi alla sommità del paese. E’ in una situazione siffatta che Putin debutta in politica quale vicesindaco della Leningrado ridivenuta San Pietroburgo.
Scrive Lilin: “Da una parte quelli che si aggrappavano alla speranza che la grande potenza […] sarebbe passata attraverso la tempesta, conservando la propria struttura e la propria ideologia. I loro avversari, invece, non nutrivano nessuna illusione sul futuro della patria sovietica e ormai si comportavano come se già vivessero in un altro paese”. Sontuoso era il corteo di accuse e controaccuse di corruzione personale che le due parti in campo si scaraventavano in volto, e lo stesso Putin è stato ripetutamente tacciato di essersi creato un ragguardevole “patrimonio” familiare. E comunque era stato Eltsin a indicarlo nel 1999 come l’uomo di cui aveva bisogno l’Urss di fine millennio. Nel frattempo era esploso il terrificante terrorismo ceceno, al quale l’ex colonnello del Kgb divenuto primo ministro replicò che lui i terroristi li avrebbe fatti uccidere “persino nei cessi”.
Ancora Lilin: “I terroristi compresero che davanti a loro c’era un ragazzo di strada incazzato come una bestia e spietato come una tigre”. Senza dire che gli stessi oligarchi russi finanziarono con 50 milioni di dollari la prima campagna presidenziale di Putin, ci tenevano a che non diventasse un loro nemico. Sì, era inevitabile che l’ex colonnello del Kgb apparisse l’uomo giusto al posto giusto in quell’astrale paese dove di tanto in tanto politici e giornalisti cadono per strada uccisi.